Da La Repubblica del 02/08/2005

Il leader scomparso era l'idolo della gente del sud contro gli "arabi" del nord

Da sanguinario a uomo di pace la parabola di "doctor John"

A rischio l'intesa fra sud e nord del Paese, appena raggiunta dopo un quarto di secolo
"La sua scomparsa potrà forse aprire le porte a nuove forze più democratiche"

di Pietro Veronese

Molto o poco amato che fosse (e lo era piuttosto poco), più o meno temuto (e di certo molti lo temevano), il leader sudista John Garang era un uomo chiave, un protagonista, nel processo di pace del Sudan. Una pace che ha impiegato moltissimo tempo e infinito dolore a maturare - quasi un quarto di secolo - e solo da poco, da troppo poco è sbocciata. Il processo sudanese è estremamente complesso e fragile: la scomparsa repentina di Garang lo mette a repentaglio. Non è detto che esso non gli sopravviva; ma il rischio è grande.

Ci sono stati ieri tre tipi di reazioni alla morte di Garang. La prima è quella popolare. I sud-sudanesi che vivono a Khartoum - povera gente, in gran parte marginali ed emarginati, i «terroni» della capitale sudanese - sono scesi per le vie in preda a un umore di rivolta, abbandonandosi in alcuni casi alla caccia all'arabo, cioè al nordista. Una reazione dunque di sgomento e rabbia, trascesa in violenza di piazza, con un cospicuo numero di vittime.

Circa questi disordini è lecito comunque restare diffidenti, perché non si può escludere la manipolazione ad opera di chi, dentro e fuori la cerchia del potere islamico a Khartoum, resta ostile al processo di pace e potrebbe dunque cercare di far crescere ad arte la tensione interna.

La reazione dei leader politici nazionali ed internazionali è stata fin troppo misurata, razionale, raziocinante. Quasi del tutto priva di emozione.

Valga per tutte quella del presidente Omar el Bashir, il quale si è detto sicuro che «il processo di pace proseguirà come concordato» e che «i fratelli del movimento sbrigheranno i loro affari con la dovuta rapidità, insh'Allah, se Dio vuole». L'accenno alla scelta del successore non poteva essere più cinica: non lascia molti dubbi sul fatto che il potere di Khartoum non si dispone a rimpiangere Garang.

Infine gli esperti della questione sudanese, gli studiosi che hanno scritto libri sulla guerra e gli specialisti delle organizzazioni umanitarie. Liberi dagli scrupoli dell'ufficialità, tutti costoro non hanno esitato a vedere nella scomparsa del leader dello Spla un pericolo, ma anche un'occasione. A cominciare dall'americana Jemera Rome, appassionata amica del sud Sudan per conto di Human Rights Watch: «Per quanto tragica e scioccante, questa morte apre la porta all'avvento di forze più democratiche. Lo Spla non ha mai preteso di essere un'organizzazione democratica. "Ho una guerra da vincere", disse una volta Garang, intendendo che non aveva tempo per soffermarsi sulle violazioni dei diritti umani. Adesso si è creata un'opportunità di sostituire con un nuovo sistema il dominio di una persona».

Più che un epitaffio, una lapidaria sentenza.

Questo disincantato ottimismo si fonda sulla conoscenza di Garang, della sua storia personale, del modo in cui ha condotto il suo movimento attraverso i difficilissimi decenni della guerra civile.

Egli ha sempre avuto la statura del capo, il coraggio del gesto risolutore.

Fu lui a decidere che il dado era tratto quando, giovane ufficiale inviato dal governo a sedare la rivolta di una piccola guarnigione del sud, passò invece dalla parte dei ribelli e diede nuovo avvio alla guerra che si è conclusa formalmente appena pochi mesi fa, nel gennaio di quest'anno. Ma non è mai stato un democratico. Il suo potere si è sempre poggiato sulla sua tribù, i Dinka, che pur essendo la maggiore etnia del sud Sudan sono ben lungi dall'esserne l'unica. Ha sempre represso con ferocia il dissenso e i tentativi di insidiare la sua guida autocratica. La sua incapacità di tollerare la discussione ha provocato negli anni crisi gravissime nello Spla, scissioni, omicidi, guerre intestine.

Ma la sua astuzia politica ha sempre sopravanzato il suo comportamento spesso brutale, talora decisamente sanguinario. Ha saputo essere un amico prima dei sovietici e poi degli americani (arricchendosi all'occasione con gli uni e cogli altri); un ateo capace di sedurre i fondamentalisti protestanti americani; il capo di una rivolta che non si è però mai espresso per l'indipendenza del sud dal resto del Paese. Per questo «doctor John» (titolo di cui si fregiava legittimamente, perché aveva ottenuto un dottorato universitario) è rimasto a galla fino alla sua ultima trasformazione, da leader guerrigliero a primo vicepresidente della Repubblica nel nuovo Sudan appena nato dagli accordi di pace. Il suo ritorno a Khartoum è del 6 luglio, meno di un mese fa. Lo aveva accolto una folla in delirio: Garang nella capitale voleva dire che la pace era una cosa vera.

Il suo posto verrà preso da Salva Kiir Mayardit, fedele numero due, sua ombra, dinka come lui. Apprezzato negoziatore della pace, considerato più «collegiale» nello stile di comando. Ma fino a ieri Salva Kiir non esisteva senza Garang: resta da vedere se ne sarà capace adesso. Speriamo soltanto che la scomparsa di quest'uomo che nessuno sembra aver veramente pianto non tenga in serbo nuove lacrime per il Sudan.

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