Da Corriere della Sera del 04/08/2005

Dopo le durissime proteste, migliaia di abitanti degli insediamenti hanno accettato il piano di ritiro di Sharon. «Non avremmo potuto resistere, meglio guardare al futuro»

La resa di Ronit: «Entro nella nuova casa»

Trasloco nel villaggio di Nitzanim, insieme ai coloni che lasciano Gaza

di Lorenzo Cremonesi

NITZANIM (Israele) - Ne ha percorsa di strada Ronit Hatlas. Solo pochi giorni fa gridava: «Da casa mia non partirò mai, questa terra è nostra, non tornerà agli arabi». Ma ieri mattina ha preso scope, detersivo e stracci ed è venuta qui tra le «caraville» di Nitzanim, ha atteso con pazienza in coda per ricevere la chiave e ora vorrebbe soltanto iniziare a pulire quella che sarà la loro casa almeno per i prossimi due anni. «Basta rinviare l'inevitabile. Ho capito che Sharon fa sul serio. Non potremo resistere e allora tanto vale guardare al futuro», dice.

Sono ormai migliaia i coloni ebrei di Gaza che pianificano di lasciare i loro insediamenti prima del 17 agosto, la data fissata dal gabinetto di Ariel Sharon per l'applicazione del ritiro israeliano. C'è chi dice siano oltre la metà degli 8.000 residenti. «Come dopo un lutto, un grave incidente, un divorzio, o la fine di un amore. I coloni di Gaza stanno passando in poche settimane dalla negazione della realtà alla sua progressiva accettazione. Un processo doloroso, traumatico. Ma sempre meno rinviabile», spiega Haviv Termens, lo psicologo che da 6 anni lavora nella clinica della colonia di Neve Dekalim.

Il primo passo lo fanno venendo qui, tra i campi e le dune di Nitzanim, sulla costa, una trentina di chilometri a Nord della striscia di Gaza. In meno di due mesi i funzionari dell'Agenzia Ebraica (l'ente per l'assorbimento degli ebrei in Israele finanziato soprattutto dalle donazioni provenienti dalla diaspora) hanno eretto a tempo di record oltre 410 «caravan-ville». «Sono abitazioni prefabbricate monofamiliari grandi da 60 a 90 metri quadrati su di un piano. Il criterio di assegnazione è semplice: occorre risiedere a Gaza da oltre un anno e accettare di partire senza resistenze. Le famiglie con più di 5 figli ottengono le più grandi. Poi ci pensa il governo, che include nei fondi di indennizzo anche il costo della nuova casa e persino del trasloco», illustra Ariè Eldar, l'incaricato alla distribuzione delle abitazioni.

Alle sue spalle è appesa la cartina della nuova città, con le indicazioni per i residenti. Ognuna delle colonie di Gaza ha un suo quartiere. «La stragrande maggioranza ci chiede di poter abitare assieme alla comunità di provenienza, aiuta a superare i traumi», aggiunge. A sua volta ogni quartiere è diviso tra la zona riservata ai religiosi e quella per i laici.

Un'organizzazione che sembra ben accolta dalle famiglie in arrivo. Anche se certo non mancano proteste. «A Gaza ho una villa di 200 metri quadrati e un gigantesco giardino. La nostra qualità della vita sarà drasticamente ridotta», dicono passeggiando tra i francobolli erbosi piantati di fresco tra un prefabbricato e l'altro. Ma i più non sembrano lamentarsi troppo.

«Tutto sommato sono abitazioni confortevoli, con aria condizionata, cucina già attrezzata e doppi servizi. Temevo peggio», dice Yossi (non vuole dare il cognome), un religioso di 51 anni, 7 figli, immigrato con la moglie dagli Stati Uniti nel 1991, che contesta però un aspetto molto pratico: «Il governo ci ha dato troppo poco tempo. Molte case non sono ancora pronte, c'è confusione. Avremmo bisogno di spostare la data del ritiro di almeno due mesi».

Le sue obiezioni al ritiro sono invece profondamente ideologiche: «Sono venuto in Israele per rafforzare la presenza ebraica nella terra dei nostri padri. E scelsi subito di vivere a Gaza. Perché questa terra ci è stata donata da Dio. Non abbiamo alcun diritto di abbandonarla». Neppure per la pace con gli arabi? Neppure per la pace. E comunque sono solo parole, perché gli arabi non vogliono la pace con noi. Anzi il ritiro da Gaza li rafforza, premia il loro terrorismo». Pur se con argomenti diversi, con lui concorda un vicino, Prosper Ben David, 39 anni, guardia carceraria a Beersheva, residente da 5 anni nella colonia di Nisanit assieme alla moglie Naomi e due figli piccoli. «Se fosse davvero possibile la pace, non avrei problemi a lasciare Gaza. Il lavoro l'ho già, il governo mi paga la casa temporanea. Il problema è che Gaza non è il Libano. Nel 2000 l'ex premier laburista Barak uscì dal Libano Sud e da allora il nostro confine in Galilea è in pace. Ma a Gaza imperano i fondamentalisti islamici di Hamas e Jihad. Abu Mazen e la sua polizia palestinese sono debolissimi, non sapranno fermarli. E loro si metteranno a sparare contro Nitzanim, convinti di poter ributtare presto tutti gli ebrei in mare».

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