Da La Repubblica del 04/08/2005

Scandali e cattive coscienze

di Massimo Giannini

È stato un «mercoledì nero» per l'Italia. La credibilità è prima di tutto un valore personale. Cos'altro deve accadere, perché Antonio Fazio se ne renda conto, dimettendosi immediatamente e separando definitivamente la sua immagine privata da quella dell'istituzione che rappresenta? Ma la credibilità è anche un interesse pubblico. Cos'altro deve accadere, perché Silvio Berlusconi se ne convinca, esprimendo qui ed ora una «sfiducia» politica sul governatore e riscrivendo subito le regole sulla governance della banca centrale? Eppure, in questo Paese dove tutto è tensione e mai niente è decisione, Fazio non si muove, e Berlusconi si dà malato.

L'affare Antonveneta è sempre più torbido. Evidenzia probabili implicazioni penali, e sicure aberrazioni deontologiche. Scatena una crisi istituzionale, ma ora innesca anche uno choc internazionale. L'Unione Europea manifesta «viva preoccupazione». L'Fmi annuncia «attento monitoraggio». La Bce non esclude «possibili approfondimenti». È nata come una torbida vicenda finanziaria. Adesso sta pericolosamente degenerando in un vero e proprio scandalo. Nonostante questo, il governatore continua, nella sua dissennata resistenza, a motteggiare in latino: hic manebimus optime. Quindi resto dove sto, alla faccia dei magistrati e dei mercati. E il governo continua, nella sua ostinata desistenza, a riecheggiare Flaiano: la situazione è grave, ma non seria. Quindi buone ferie a tutti, e se ne riparla a settembre. Una rapida ricognizione delle opinioni che in queste ore circolano all'estero, tra Bruxelles e Francoforte, conferma una verità deprimente: a Roma non c'è alcuna consapevolezza di quanto sia devastante l'impeachment di Fazio, e di quanto sia enorme il danno d'immagine che ne deriva per il Paese.

Se questa consapevolezza ci fosse, il primo inquilino di Via Nazionale non aspetterebbe un altro minuto a lasciare la sua poltrona. Dopo che nelle motivazioni della decisione con la quale il Gip ha confermato il sequestro delle azioni di Fiorani e dei suoi alleati si parla di «atti di pirateria finanziaria... con l'ausilio e anzi con la spregiudicata complicità di personaggi di livello istituzionale... in totale spregio delle regole poste a presidio del sistema dei controlli facenti capo in particolare alla Banca d'Italia». Dopo che nelle ultime intercettazioni telefoniche uscite si legge persino di un Fiorani che rassicura la signora Fazio parlando di «un versamento che ti ho fatto... su quel conto corrente di conto terzi...». È inutile attendere, come si dice in questi casi, che la giustizia faccia il suo corso. A prescindere dall'accertamento di eventuali responsabilità penali, il danno etico è già fatto, e per il governatore attuale non è riparabile. Per un'istituzione, la forma è anche sostanza. Basta un sospetto per azzerare una fiducia. Il banchiere centrale dovrebbe essere come la moglie di Cesare. Paradossalmente, adesso abbiamo il dubbio che in questi anni abbia giocato a fare il banchiere centrale persino la moglie di Antonio. Ne esce pregiudicato, purtroppo per Fazio e per i molti che in lui avevano creduto, l'intero arco dei 12 anni della sua gestione di Palazzo Koch. Per il passato, come si devono rileggere certe scelte di Via Nazionale, per esempio nei dinieghi alle Opa del San Paolo su Bancaroma e di Unicredito su Comit, nel salvataggio dei banchi meridionali, nei crac di Cragnotti e di Tanzi? Per il futuro, quale affidabilità può garantire un arbitro che ha giocato all'italiana (o all'«italianità») a fianco degli amici della parrocchietta e dei «furbetti del quartierino», per dirla con l'ineffabile Ricucci?

Se ci fosse consapevolezza di quanto sia dannosa questa connection, per la reputazione nazionale, alcune alte cariche dello Stato, e molti politicanti della maggioranza, si asterrebbero dalla consueta canea anti-giustizialista. Eviterebbero di concentrare tutta l'attenzione sull'albero (l'«uso strumentale delle intercettazioni») fingendo di non vedere la foresta che c'è dietro (la rete inquietante delle relazioni pubblico-private, sempre a danno dei risparmiatori, e la difesa autoreferenziale di un sistema di potere, spesso a danno dei competitori). Eviterebbero di parlare a sproposito di «reati» sulla presunta «fuga di notizie dalle procure» (come hanno fatto ieri Giovanardi e Buttiglione) fingendo di non sapere che le ultime intercettazioni erano allegate alla motivazione di un atto giudiziario già emesso, e quindi nient'affatto «segreto». Oggi come ieri (l'ha scritto Stefano Rodotà su questo giornale) certe reazioni scomposte di fronte alle inchieste della magistratura sembrano soprattutto il riflesso di una cattiva coscienza. Il potere esecutivo e il potere legislativo non riescono ad amministrare efficacemente la cosa pubblica. Il potere giudiziario è sempre più spesso chiamato, a tutti i livelli, a un diffuso lavoro di supplenza. È un'anomalia italiana, non c'è dubbio. Ma se in questo c'è una colpa, è dei politici e non certo dei giudici.

Se ci fosse consapevolezza di quanto sia devastante questo Faziogate, osservato dalle capitali europee, il consiglio dei ministri di ieri, con la colpevole contumacia del premier, non si sarebbe limitato ad ascoltare la drammatica relazione di Siniscalco, per poi aprire una rapida discussione sulle cose da fare, dividersi tra i due soliti schieramenti, e poi concludersi con il rituale nulla di fatto. Il ministro del Tesoro, durante la riunione, ha provato a suonare l'allarme. «È a rischio il prestigio dell'Italia. La credibilità è un bene pubblico, perché dalla credibilità di una banca centrale discende lo sviluppo dei mercati. E la credibilità si misura in base ad alcuni parametri: la bontà delle leggi, la trasparenza degli atti, il timing delle misure adottate, l'impressione di imparzialità trasmessa dall'organo di vigilanza, la percezione che il mondo esterno ha sulla trasparenza e la neutralità dei suoi processi decisionali». Sotto ognuno di questi profili, la posizione della Banca d'Italia è diventata insostenibile.

C'è un problema di governance. E su questo il percorso indicato da Siniscalco è corretto: approvare in fretta il disegno di legge sul risparmio, reintroducendo le norme sul mandato a termine del governatore, sulla collegialità delle decisioni e sui principi di accountability già previsti dallo Statuto della Banca centrale europea. Queste norme c'erano, nel testo originario. Furono stralciate in aula, dopo il famoso «patto della Sciacchetrà». Ora si tratta di reinserirle nel provvedimento. Raccogliendo le proposte bipartisan rilanciate dall'opposizione. E sostenute a suo tempo da Giulio Tremonti, al quale oltre ai tanti macroscopici errori che ha commesso va comunque riconosciuto, stavolta, il merito di aver intuito per tempo cosa stava accadendo alla Banca d'Italia. Ma anche su questo, l'impegno del governo è stato risibile. Nessun decreto legge urgente. E per il disegno di legge sul risparmio ci si rivede in autunno.

Ma prima ancora che di governance, c'è un problema di governatore. Anche le migliori regole, riscritte e aggiornate agli statuti delle banche centrali di tutta Europa, rischiano di essere inutili, se ad applicarle resta un civil servant su cui pende una legittima suspicione. Su questo il governo non ha un potere di intervento diretto. Eppure, soprattutto alla luce della relazione del ministro del Tesoro, che si configura a tutti gli effetti come una procedura di impeachment per Fazio, basterebbe poco per uscire anche da questa impasse. In Germania, nell'aprile 2004, fu sufficiente una richiesta del ministro delle finanze Heichel a far dimettere dalla Bundesbank il presidente Welteke, perché aveva accettato di essere ospite tre giorni, insieme alla moglie e ai figli, in un albergo spesato dalla Dresdner Bank. Un peccato veniale, rispetto a quelli imputati oggi a Fazio. ln Italia, allora, sarebbe altrettanto sufficiente un comunicato del presidente del Consiglio, con il quale si esplicitasse una censura pubblica all'operato del governatore e si esprimesse un palese rammarico per il duro colpo arrecato al prestigio e all'indipendenza di una grande istituzione repubblicana.

Ma il governo non ha avuto né la volontà né la forza di assumere una qualunque decisione operativa. Pesa l'ambiguità del Cavaliere. Pesano i soliti veti della Lega. Pesano le incertezze dentro An. Pesa, forse, anche la convenienza politica a conservare al suo posto un governatore debole e «mascariato», in un anno di campagna elettorale che vedrà la maggioranza uscente impegnata in un forsennato assalto alla diligenza della spesa pubblica. Ma non c'è calcolo più miope di questo. Di fronte a questo terremoto, la scelta peggiore è non scegliere. Il centrodestra finisce per dare una copertura morale, e dunque alla fine anche politica, al cadornismo suicida di Fazio, che rischia di trascinare nel fango non solo una persona, ma un intero organo di garanzia.

L'Europa ci guarda. Ci sono istituzioni che aspettano di capire quale exit strategy sarà adottata, per liberare la «trincea» di Via Nazionale. Ci sono mercati pronti a studiare le mosse che saranno adottate, per ripristinare la credibilità del Sistema-Paese. Sempre ammesso che, in Italia, ne esista ancora uno.

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