Da The New York Times del 24/08/2005

Le lacrime dei coloni e il futuro di Israele

La sofferenza di chi è stato costretto ad andarsene è straziante: adesso occorre lasciare che le lacrime si asciughino e che le ferite si cicatrizzino

di Elie Wiesel

Nel 1991, quando i missili Scud di Saddam caddero su Tel Aviv con un fragoroso boato, alcuni palestinesi ballarono per le strade e sui tetti delle loro case. Io li vidi, perché mi trovavo a Gerusalemme. Vidi quello che successe nei quartieri arabi della Città Vecchia.

Vidi quello che si ripeté in seguito più volte, tutte le volte che un terrorista suicida faceva esplodere una bomba su un autobus o in un ristorante.

Rievoco queste scene con grande tristezza, e per una ragione ben precisa: perché le abbiamo appena viste ripetersi a Gaza. Le immagini dell'evacuazione sono già di per sé strazianti. Alcune sono proprio insostenibili. Uomini in collera, donne che piangono, giovani portati via per le gambe o per le braccia da soldati che piangono anch'essi. Non dobbiamo dimenticare che questi uomini e queste donne hanno vissuto a Gaza per 38 anni. In questi anni si sono succeduti governi, di sinistra e di destra, che li hanno incoraggiati a stabilirsi e risiedere lì. Agli occhi delle loro famiglie costoro sono stati dei pionieri, il loro idealismo qualcosa cui rendere onore. Ed eccoli adesso, invece: costretti a tagliare le proprie radici, a prendere i loro beni personali, gli oggetti sacri e gli oggetti preziosi, i loro ricordi e le loro preghiere, i loro sogni e i loro morti, ed andarsene altrove, in cerca di un letto nel quale dormire, di un tavolo sul quale mangiare, di una nuova casa, di un futuro tra estranei.

Li abbiamo seguiti da lontano, alla televisione e sulle pagine dei nostri giornali. Alcuni si sono comportati in modo infamante e indecoroso, hanno insultato e colpito i soldati, hanno sputato in faccia agli ufficiali – compresi alcuni decorati per eroismo, perché disposti a dare la propria vita per il loro Paese. La maggioranza, tuttavia, ha reagito dignitosamente, con le lacrime. Come se condividessero un'unica disperazione, soldati ed evacuati hanno pianto insieme, talora in modo tale da indurre alcuni commentatori a criticarli, dicendo: "I nostri soldati di ieri e di domani non dovrebbero cedere così facilmente all'emozione".

Da un punto di vista strettamente militare l'operazione può dirsi un vero successo. Per questo e per la sua coraggiosa decisione di puntare alla pace futura anche a costo di un alto prezzo politico da pagare, il primo ministro Ariel Sharon merita tutta la nostra stima. A partire da adesso, però, israeliani e palestinesi devono rispondere ad un'altra domanda: "E adesso?"

Qui sono costretto a fare un passo indietro: nella tradizione che mi è propria, il Re Salomone ordinò agli ebrei di "non esultare quando il nemico cade". Non so se il Corano suggerisca la stessa cosa, ma dal mio punto di vista ciò che manca per chiudere questo capitolo è un gesto collettivo che dovrebbero fare – e che ancora non hanno fatto – i palestinesi.

Proviamo a immaginare di che cosa possa trattarsi. Proviamo a immaginare che di fronte alle lacrime e alle sofferenze degli evacuati i palestinesi abbiano scelto di mettere a tacere la loro gioia e il loro autocompiacimento, invece di organizzare parate militari con soldati dal volto coperto che imbracciano mitragliatrici e sparano in aria come per festeggiare una grande vittoria sul campo di battaglia. Sì, immaginiamo che il presidente Mahmoud Abbas e i suoi collaboratori abbiano esortato i loro seguaci a mostrare moderazione, autocontrollo, rispetto e anche un po' di comprensione per gli ebrei che si sono visti colpire da una sorte così infausta. Ebbene, avrebbero riscosso l'ammirazione di tutti. Mi si potrebbe forse contestare che quando i palestinesi piansero per la perdita delle loro case furono pochi gli israeliani che si commossero. È anche possibile, ma quanti israeliani manifestarono gioia così apertamente?

E adesso, a che punto siamo? È tassativo che si rispetti una pausa. Occorre lasciare che le lacrime si asciughino e che le ferite si cicatrizzino. L'odio, in momenti così delicati, è assai deleterio. Qualsiasi pressione dall'esterno rischia di essere controproducente.

Perché queste mie parole di monito? Perché nel maggio scorso ad un pranzo ufficiale offerto dal Re Abdullah II di Giordania, ho conversato con il primo ministro palestinese Abu Abbas. Quando gli ho chiesto che cosa ne pensasse della coraggiosa decisione presa da Sharon a proposito di Gaza, egli ha sottolineato le sue parole di disprezzo con un gesto della mano: «Tutto ciò non significa nulla, non serve a nulla. Se Sharon non inizia immediatamente i negoziati per i confini definitivi, sarà una catastrofe». Ha sottolineato in particolar modo queste due parole: "immediatamente" e "catastrofe". L'ottimista che è in me ha bisogno di credere con tutte le sue forze che quelle siano state soltanto parole. Gaza, dopo tutto, è soltanto uno dei molti capitoli di un libro che alla fine dovrà parlare di pace.
Annotazioni − Articolo pubblicato il 24/08/2005 su "la Repubblica". Traduzione di Anna Bissanti.

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