Da La Repubblica del 26/08/2005

Suffragette, l'alba del femminismo

Sul web la storia fotografica delle eroine Usa in sottogonna e bustier

Lottarono per affermare i traguardi d'uguaglianza, terrifcanti rivoluzionarie con i capelli bianchi e i collari di pizzo
Nel 1920 l'ultimo stato Usa, il Tennessee, ratificò il diritto di voto alle donne, dopo una battaglia durata quasi ottanta anni
Susan B. Anthony fu la leader del movimento: la chiamavano Napoleone per il cipiglio da capo
Mogli di austeri businessmen, più beghine che dissolute, di impeccabile rispettabilità

di Vittorio Zucconi

Washington - Le nonne del femminismo ci guardano corrucciate dal pozzo del tempo, senza sorridere, nessuna di loro. Non c'è una di quelle duemila e seicento donne raccolte nell'album di famiglia delle suffragette esposto ora alla Libreria del Congresso di Washington che osi concedersi al lampo di magnesio, come se tutte temessero di dare un segno di «debolezza femminile».

Quella debolezza che le aveva condannate a essere cittadine americane di seconda categoria. Le più anziane, le veterane dei picchetti e degli appelli come Susan B. Anthony, le altre imbustate e strizzate in corsetti, stringhe e «bustier» (il mito dei reggipetti bruciati era ancora molto lontano) hanno un'espressione di amara determinazione, come se sapessero che non avrebbero mai attraversato il traguardo per il quale avevano camminato tutta la vita e che sarebbe stato tagliato un 26 agosto come oggi di 85 anni or sono, quando l'ultimo stato americano, il Tennessee, ratificò il voto alle donne. E infatti Susan Anthony, soprannominata «Napoleone» per il suo cipiglio di condottiera, era già morta Queste terrificanti rivoluzionarie con i capelli bianchi, il cappellino di paglia, il collare di pizzo e il cammeo, erano le vandale in sottogonne di crinolina che «avrebbero distrutto la famiglia» e «spazzato via i valori morali della nostra società» come tuonava l'immancabile trombone dell'epoca, Orestes Bronson. I buoni cittadini, i bravi padri di famiglia, i conservatori erano terrorizzati dalla coincidenza fra il movimento femminile e la invenzione del processo di vulcanizzazione della gomma che nel 1859 aveva permesso la produzione industriale di profilattici moderni, palese strumento di devastazione morale e di liberazione della sessualità, come decenni dopo la «pillola». Ma le rovinafamiglia hanno tutte, nell'album, un'aria di impeccabile e vittoriana rispettabilità borghese, come era il mondo dal quale venivano.

Erano mogli di austeri businessmen, di predicatori quaccheri o anglicani, certamente più beghine che dissolute, predicatrici della temperanza, studentesse frustrate in una società nella quale Elizabeth Cady si sentì dire dal padre avvocato, dopo anni di pratica nel suo ufficio: «Peccato che tu sia femmina, Liz, saresti stata un eccellente avvocato» e Harriet Stowe poteva scrivere un best seller sconvolgente come «La Capanna dello Zio Tom», ma non votare neanche per il consiglio comunale. Hanno in fondo la stessa espressione di orgoglio e di pudore dei fantaccini ritratti in uniforme prima di essere mandati al massacro. E se nessuna di queste signore immortalate nei primi dagherrotipi del 1848 (lo stesso anno del Manifesto marxiano), quando il movimento per il voto alle donne cominciò con una «Dichiarazione di sentimenti» scritta attorno a una tazza di tè da Lucretia Mott e da Jane Hunt e poi fino alla vittoria del 1920, cadde al fronte, parecchie finirono dietro le sbarre.

Nello sguardo severo e rampognante che l'ormai anziana «Napoleone» rivolge all'obbiettivo insieme con l'amica e compagna di battaglia Elizabeth Cady maritata Stanton, l'avvocato mancato, come negli occhi accesi e duri di Amelia Boomer, che nella propria casa di Seneca Falls, nello stato di New York, ospitò molte cospiratrici, sembra esserci il segno di un rimprovero lanciato attraverso le generazioni alle loro nipoti e pronipoti, alle diciottenni e ventenni di oggi che, ancora più dei loro coetanei maschi, disertano in massa le cabine elettorali conquistate dalle bisnonne.

Eppure i padri fondatori, tirati per la giacca dalle madri fondatrici che avevano scritto ai mariti, come la signora Abigail Adam al marito e futuro Presidente John, «ti prego, mio caro, di non dimenticare le donne nelle leggi che scrivete», sembravano aver affermato senza equivoci la eguaglianza tra uomini e donne, nel preambolo della Costituzione, e i loro «inalienabili diritti». Belle parole, ma già nel 1777 una legge passata in fretta dal Congresso aveva negato il voto alle femmine, per i successivi 143 anni.

Si capisce, dunque, perchè quelle duemila e seicento donne non sorridano nel vecchio album del femminismo. Neppure Presidenti abolizionisti come Lincoln, «progressisti» come Theodore Roosevelt o «illuminati» come Woodrow Wilson, accettarono le petizioni del Nawsa, il movimento nazionale delle suffragette. Il Congresso, davanti al quale ogni anno, implacabilmente, Susan Anthony si presentava per pronunciare le sue filippiche, faceva altrettanto. Applaudiva, incoraggiava, sorrideva e poi insabbiava. La famiglia, si doveva proteggere la famiglia.

Furono la guerra, spietata madre di cambiamenti, dove 350 di queste donne perdettero un figlio in uniforme, a sbloccare le ruote della storia e dare senso a una Costituzione che, come tutte le carte costituzionali, ha soltanto valore nell'applicazione e non nella lettera. Nel grande rimescolamento culturale e morale degli anni ‘20, fu votato e approvato quell'emendamento costituzionale che gli Stati poi ratificarono. Le nonne del femminismo avrebbero potuto finalmente sciogliersi i corsetti, respirare e sorridere, ma soltanto fino al 1976, quando l'emendamento che avrebbe definitivamente vietato ogni discriminazione «basata sul sesso» si arenò a 36 dei 38 stati necessari. Lì è rimasto.

Per confermare il vecchio detto della saggezza popolare americana, che «il lavoro di una donna non è mai finito».

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