Da La Repubblica del 26/08/2005

L'ira di Gianni Letta, le accuse dei rivali del Sismi: è l'epilogo di un'affare che scatena una rissa italiana

Palazzo Chigi sconfessa il suo uomo "Un nuovo colpo di protagonismo"

Tra Sismi e Cri una gara per rivendicare la liberazione delle due volontarie

di Carlo Bonini

Come un morto che si afferra ai vivi, il commissario straordinario uscente della Croce rossa, Maurizio Scelli, trascina in un solo giorno Palazzo Chigi (nella persona del sottosegretario Gianni Letta) e la nostra intelligence militare, il Sismi (nella persona del suo direttore Nicolò Pollari), nel fondo del pozzo iracheno e di una nuova crisi verticale con l'alleato americano.

Nella mediazione e liberazione di Simona Torretta e Simona Pari - dice Scelli in un'intervista alla Stampa - governo e servizi hanno consapevolmente taciuto a Washington il prezzo che l'Italia accettò di pagare per riavere in vita le due ragazze. Quindi, travolto dalle reazioni a quello che gli appare lo svelamento di un segreto di Pulcinella, il commissario straordinario si mostra sorpreso che faccia scandalo oggi ciò di cui si poteva menare pubblico vanto ieri. In fondo - spiega - che le due volontarie italiane fossero state liberate grazie alle cure clandestine assicurate nell'ospedale della nostra Croce Rossa a Bagdad a guerriglieri iracheni ricercati dalle forze armate americane «lo avevo già detto». «A Bruno Vespa nel suo libro e all'Espresso», dice lui. Certo, non alla Procura di Roma, da cui pure è stato più volte interrogato. Certo non alla Croce Rossa Internazionale, che ora chiede spiegazioni su quali patti siano stati fatti in suo nome e a sua insaputa.

Scelli finge insomma di non vedere nulla di strano nell'abbraccio mortale a Gianni Letta e Nicolò Pollari, il responsabile politico e il responsabile tecnico della stagione degli ostaggi. E di quel «metodo» allora affinato a Palazzo Chigi della doppia diplomazia, delle doppie verità, di cui il sequestro di Giuliana Sgrena e la morte di Nicola Calipari sono stati nel marzo scorso il drammatico epilogo.

Ma che sia proprio in questo svelamento l'irrimediabile danno politico inferto al governo, lo si misura raccogliendo a sera, lo sfogo di chi, a Palazzo Chigi, riferisce la reazione di Letta. «Un atto di vanità. Le parole di Scelli non stanno né in cielo né in terra. Si è lasciato prendere la mano dal desiderio di protagonismo. Mai, mai, mai, abbiamo messo in discussione la nostra lealtà verso l'alleato americano e la Croce rossa ha sempre lavorato in autonomia», ha detto il sottosegretario. Che, per altro - riferiscono ancora a Palazzo Chigi - aveva intenzione di rispondere con parole molto più dure di quelle che sono poi uscite nel comunicato ufficiale. Un primo testo era stato già praticamente scritto: «Per chi si trova per la prima volta a calcare un palcoscenico importante - recitava - le luci della ribalta ingannano, dilatano, illudono. Finiscono per ingannare e mescolare fantasia e realtà».

In ventiquattro ore, insomma, l'uomo che Letta portava in palmo di mano, vicino agli occhi del Presidente del Consiglio, sistematicamente seduto al tavolo informale che, a Palazzo Chigi, ha accompagnato la gestione di ogni crisi degli ostaggi, retrocede al grado di chi, nella migliore delle ipotesi, non sa cosa dice.

E, nella peggiore, mente per vanità. Del resto, Scelli è un sacrificio inevitabile. Perché, a questo punto, anche il destino del generale Pollari è appeso a un filo. Il direttore del Sismi, infatti, chiamato all'indomani della liberazione delle due Simone a riferire in seduta segreta al Comitato Parlamentare di controllo sui servizi, del ruolo svolto dalla nostra intelligence nella trattativa, aveva rivendicato al Sismi e soltanto al Sismi il merito dell'operazione. Dunque, delle due l'una. O Pollari ha mentito ieri al Parlamento (dal momento che era a conoscenza di quel che aveva combinato il commissario straordinario della Croce Rossa), oppure è Scelli a mentire oggi. Oppure - ed è un'altra ipotesi ancora - ciascuno dei due ha provato fino in fondo a rivendicare per sé l'esclusivo merito della conclusione dell'affare.

Un fatto è certo. Quel pochissimo che ancora restava della credibilità della nostra presenza militare, di intelligence e umanitaria in Iraq dopo il calvario della vicenda Calipari appare definitivamente compromesso. Gli americani non solo non seppero delle mosse di Scelli durante il sequestro, ma non ne vennero informati neppure a cose fatte. Né dall'autorità politica italiana, né dai nostri servizi, né dal nostro ufficiale più alto in grado nella catena di comando alleata in Iraq (il generale Marioli che, a detta di Scelli, venne volutamente tenuto all'oscuro). Una circostanza, questa, confermata del resto anche dalle parole con cui le due Simone, subito dopo la morte di Calipari nel marzo scorso, hanno ricordato il pomeriggio della loro liberazione (28 settembre 2004). Quel giorno, durante la corsa con cui venivano portate all'aeroporto di Bagdad, a entrambe venne fatta una sola raccomandazione: «Accucciarsi nella macchina per non farsi vedere dagli americani».

A Palazzo Chigi, riferiscono di lunghi colloqui telefonici di Letta con gli americani. Insistono nell'accreditare la tesi secondo cui Washington avrebbe «compreso» e «accettato» la spiegazione fornita dal governo, perché «gli americani hanno capito chi è il personaggio Scelli». Lo stesso argomento che in queste ore va spendendo il Sismi. Dove ci si prepara a brandire l'arma con cui Pollari ritiene di poter sopravvivere a questa nuova crisi: il suo personale contrasto con Scelli. Cominciato proprio durante il sequestro delle due Simone e - dicono - esploso durante il sequestro Sgrena, quando il direttore del Sismi, di fronte all'ennesimo tentativo di «competizione» nella trattativa abbozzato dall'altro ospite fisso di Palazzo Chigi, avrebbe detto proprio a Letta: «O me, o Scelli». Non è detto che sarà un argomento sufficiente.

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