Da Corriere della Sera del 31/08/2005

Tra Tigri e Eufrate rinasce l’Eden delle paludi

Un progetto guidato dall’Italia ha risanato l’area prosciugata e avvelenata da Saddam

di Paolo Conti

«Potremo affermare di avercela fatta davvero quando sarà rinata l’economia di un tempo. Cioè quando torneranno gli allevamenti dei bisonti, la pesca e la caccia avranno raggiunto quote accettabili e la popolazione sarà tornata autonoma come un tempo. Ma non siamo lontani, anzi. I risultati sono ora molto buoni». Corrado Clini, direttore generale del ministero dell’Ambiente, è ottimista sul futuro del popolo Madan, ovvero degli arabi sciiti delle paludi irachene tra Bassora, Nassiriya e Amara, ottomila chilometri quadrati di paludi che diventano ventimila nella stagione delle piogge (quasi la regione Lazio, per capirci) nel gran delta di confluenza tra il Tigri e l’Eufrate. Luogo di sogno, tradizionalmente identificato con l’Eden biblico dagli antichi popoli mediterranei, abitato da genti stabili in quell’area da cinquemila anni e che poeticamente così si descrivono nei propri miti: «Siamo fatti di un impasto d’acqua e aria». E basta scrutare qualche immagine per afferrare il silenzio millenario di quelle esistenze: distese di acqua pura, canneti, isolotti abitati di terra battuta, solo i versi degli animali come colonna sonora, un clima temperato .

I Madan sono arabi di fede sciita e dalla pelle scura cotta da secoli di esposizione al sole e sono suddivisi da sempre in dieci tribù. I capi hanno tuttora un potere reale sulle scelte del loro popolo e nessuna decisione viene presa senza il loro assenso. L’economia è tradizionale quanto le inconfondibili capanne a forma di tunnel, costruite solo di papiri e canne leggere pressate (nemmeno le moschee erano in muratura) o le svelte canoe capaci di addentrarsi nei canali, in una struttura idrogeologica non molto dissimile dalla laguna veneta.

Ma Saddam Hussein nel 1991 fece distruggere tutto nel giro di pochi mesi. Una parte dei Madan parteciparono alle ribellioni sciite e da Bassora altri combattenti, sempre sciiti, trovarono rifugio tra le paludi. Hussein decise di polverizzare quella dissidenza: con la scusa di garantire un’irrigazione decente nelle altre zone irachene del Sud deviò le acque col progetto del Terzo Fiume (il «Fiume della madre di tutte le battaglie» e il «Canale della fedeltà al Leader») e desertificò l’area, infine avvelenò le zone rimaste umide. Costrinse così probabilmente 250 mila persone a una gigantesca migrazione (dopo aver ucciso almeno 30 mila dissidenti Madan). Circa 100 mila fuggirono in Iran, gli altri si dispersero. Appena venti-trentamila individui rimasero aggrappati alla loro mitica patria, ma in condizioni disperate. L’allora Segretario di Stato Usa, Colin Powell, parlando all’Onu il 5 febbraio 2003 sui crimini di Saddam parlò di genocidio. L’inedito deserto portò scompensi epocali: 5 gradi in più di temperatura (un record planetario), la barriera corallina nel Golfo Persico dissestata dalla carenza del flusso idrico dal grande delta.

Proprio dal giugno 2003 l’Italia è il paese-pilota nel progetto «New Eden», programma di ripristino delle aree umide in collegamento con la Iraq Foundation, i tre ministeri iracheni delle Acque, dei Lavori pubblici e dell’Ambiente e in stretta collaborazione con l’Unep, l’agenzia Onu dei programmi di sviluppo.

Tra i paesi donatori (Italia, Usa, Gran Bretagna, Canada e Giappone) il nostro è il più presente sia sul piano delle risorse economiche che su quello dell’impegno umano. Spiega Clini: «Fino a oggi noi abbiamo garantito un finanziamento complessivo di 12,5 milioni di euro, il Giappone ha contribuito con 9, gli Stati Uniti con 6,5, la Gran Bretagna ha fornito soprattutto infrastrutture e conoscenze. In quanto al personale, nella zona stanno lavorando 115 tecnici tra italiani e iracheni. Ed è l’Italia ad aver realizzato il Master Plan, ovvero le tappe e le scadenze del progetto».

Fino a ora è stato riallagato quasi il 45% dell’area e sono tornati circa trentamila Madan: alcune immagini satellitari spingono all’ottimismo, l’acqua è visibilmente aumentata rispetto al 2003. Il punto della situazione tra i paesi donatori risale a pochi giorni fa, il 24 agosto, a Tokio: «Ci siamo dati appuntamento al 21 novembre in Iraq per un accordo-quadro con la Banca Mondiale, tenendo conto che la riqualificazione delle paludi Madan ha un inevitabile collegamento con l’intera area del Golfo Persico. Quindi speriamo di coinvolgere anche l’Iran e il Kuwait. Ma un altro nostro obiettivo è coinvolgere la Turchia».

Proprio la Turchia è il Paese dove nasce l’Eufrate e che ne ospita il 28% del corso: nella prospettiva di un Pianeta sempre più assetato, avrà forse la massima responsabilità nel futuro idrico della Mesopotamia.

Realisticamente, stando ai documenti dell’Unep, si può immaginare di far ristabilire in tempi ragionevoli circa 85 mila persone, in gran parte rientrate dall’Iran del Sud. Ma c’è ancora moltissimo da fare: garantire il ripopolamento dei pesci e degli uccelli, visto che un tempo le paludi erano la tappa obbligata di molte specie migratorie, e dar vita a nuovi allevamenti di bisonti. Non dovranno mancare scuole e strutture pubbliche.

E poi occorrerà ricostruire case, in tutto simili a quelle che per millenni ospitarono i Madan e li protessero dalla pioggia grazie alla collaudata struttura: quattro o cinque «travi» di canne e paglia saldate sul terreno ai due lati, pareti rinforzate dai rami di palme. Con una novità, annuncia Clini: «Manterranno la struttura tradizionale. Ma inseriremo gli standard igienici del mondo contemporaneo. Abbiamo consultato i capi tribù dei Madan e sono d’accordo». Insomma: un bagno moderno non stona, nel Nuovo Eden del dopo-Saddam.

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