Da La Repubblica del 06/10/2005

La sindrome cinese

di Federico Rampini

NON ci sono altri Paesi dove un governo in sella da anni, di fronte a un'economia agonizzante, cerca i responsabili sempre fuori dei propri confini. Nel presentare la Finanziaria Tremonti II ha solo corretto il tiro rispetto a Tremonti I: la causa del declino italiano non è più l'11 settembre (non lo era mai stato). Sono la Cina e l'euro i colpevoli, se l'Italia è ultima nella classifica della crescita mondiale. 11 settembre a parte, c'è una coerenza in Tremonti.

Da un decennio interpreta la cultura di un pezzo consistente dell'economia italiana, capitalisti piccoli e grandi, rendite e corporazioni. Quella ricerca del capro espiatorio che in altre capitali sembrerebbe puerile, rispecchia la scelta strategica di molti attori del nostro sistema.

Non solo Tremonti, ma una parte d'Italia si rifiuta di prendere atto che l'euro e la Cina ci saranno per sempre, e che siamo noi a doverci adeguare a un mondo cambiato.

L'ideologia tremontiana ha messo radici durante dieci anni cruciali. Il decennio dal 1995 al 2005 è il periodo in cui il modello italiano ha dilapidato se stesso, è imploso, vittima di un collasso. Con rare eccezioni, tutte le componenti del capitalismo sono franate contemporaneamente: le piccole imprese stritolate dalla globalizzazione, prima dall'Est europeo poi dalla Cina; le grandi imprese in ritirata dal mondo, asserragliate in una ridotta di servizi monopolistici locali, dalla tv ai telefoni, dalle assicurazioni alle banche. Nel medesimo periodo l'Europa è passata dall'essere idealizzata come un motore di modernizzazione, fino a essere demonizzata come la causa di ogni male. Per capire le ragioni di un cambiamento così brutale, una chiave è la nuova fase della globalizzazione che matura proprio durante gli anni Novanta.

Il mercato unico europeo e l'impulso alla liberalizzazione degli scambi con i paesi emergenti (la nascita del Wto), l'impatto tecnologico della new economy nell'accorciare le distanze tra i continenti, l'emergere della Cina come nuova potenza economica: sono i macrofenomeni che fanno da sfondo al crollo italiano.

In quegli anni il nostro è l'ultimo dei paesi industrializzati a cogliere quel che sta accadendo, e le conseguenze di quel ritardo di comprensione sono micidiali. Mentre altri paesi europei si sono rafforzati nell'industria tecnologica o si sono riconvertiti nei mestieri post-industriali dei servizi avanzati, adattando la propria vocazione alla nuova divisione internazionale del lavoro, l'Italia scopre di essere una piccola nazione industrializzata che assomiglia troppo alla Cina, nel senso che si è illusa a lungo di poter competere con ricette simili ai paesi emergenti: bassi salari, moneta debole, economia sommersa, evasione fiscale e contributiva, scarso rispetto dell'ambiente, illegalità diffusa.

La fiammata di popolarità di cui godettero i nostri distretti industriali di micro-imprese familiari all'inizio degli anni Novanta fu l'ultimo bagliore di una illusione: eravamo i cinesi d'Europa e abbiamo creduto di poter continuare su quella strada, non ci siamo accorti che stavano arrivando i cinesi veri.

Il contraccolpo politico-culturale è stato feroce. In assenza di una leadership lungimirante, l'universo della piccola impresa ha cominciato a sprigionare nostalgie protezioniste, rancori antieuropei, antiglobalizzazione o anticinesi. La grande impresa - ormai ex grande impresa alla luce delle nuove dimensioni necessarie per competere sui mercati globali - non si è comportata meglio, cercando rifugio nella rendita e negli ultimi mestieri protetti dalla politica. Stati Uniti Francia Germania hanno multinazionali che esportano in Cina aerei e centrali elettriche, si alleano con la Cina e con l'India per produrre computer e software. Il grande capitalismo di quei paesi non solo ha un ruolo riequilibratore nelle bilance commerciali, ma esercita anche un'influenza politico-culturale, ispira una visione del mondo. Di fronte ai perdenti come l'industria tessile che anche in America e in Francia invocano il protezionismo, c'è una dialettica con altri settori: l'industria tecnologica, la finanza, le associazioni degli ipermercati, i consumatori. Il dibattito sulla globalizzazione in quei paesi ha più voci. In Italia la somma dei capitalismi deboli fa sentire una voce sola, che incita alla fuga.

Tremonti accarezza questa paura. Poi sa battere in ritirata per non trarre le conseguenze dei suoi proclami. Di uscire dall'euro ora non parla più. E la guerra alla Cina? Lo stratega dell'economia italiana tiene nascosti nei suoi cassetti i piani segreti dell'offensiva, la mossa fatale con cui stendere l'avversario al tappeto.

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