Da La Repubblica del 10/10/2005

Pakistan, un paese in ginocchio Musharraf: "Il mondo ci aiuti"

Le vittime oltre 30 mila, strage di bambini sotto le macerie

Il sisma avvenuto all'ora in cui le scuole erano piene di alunni
Difficili i soccorsi: intere zone sono ancora isolate
Gli scampati vagano con in braccio i corpi dei propri cari

di Raimondo Bultrini

NEW DELHI - Diciottomila hanno detto fonti dell'esercito pachistano. Forse trentamila ha dichiarato un ministro del Kashmir amministrato da Islamabad. Ma è ancora impossibile inseguire le cifre delle vittime, tante sono le province ancora isolate da frane e ponti crollati, dove i pochi elicotteri dell'esercito e quelli messi a disposizione da qualche governo straniero volteggiano incessantemente per atterrare qua e là, tra casupole di fango e mattoni alla ricerca di sopravvissuti che si aggirano tra la macerie inebetiti dalla tragedia che in pochi secondi ha trasformato le montagne boscose del Kashmir in un gigantesco cimitero. La situazione più dolorosa da accettare per le famiglie è quella di centinaia di bambini che sarebbero stati uccisi mentre erano a scuola: il sisma è avvenuto proprio al momento dell'inizio delle lezioni. Almeno mille bambini sarebbero morti, secondo le autorità locali.

Il terremoto più spaventoso nella storia recente del Pakistan ha messo in ginocchio un paese già allo stremo delle forze, e la stessa capitale Islamabad, coi suoi palazzi di marmo simbolo di un potere forte solo in apparenza, non sembra riprendersi dallo choc degli edifici come il complesso di Margala Towers crollati come castelli di carta sotto i cui detriti restano centinaia di vittime che i soccorritori ancora cercano di rimuovere a mani nude: tra di loro ci sarebbe anche Alberto Bonanni, 50 anni, dipendente dell'ambasciata friuliana.

Ma è Muzaffarabad, la città simbolo del dominio pakistano sull'Azad Kashmir, distrutta al 70 per cento secondo fonti governative, l'epicentro dell'inferno dove si aggirano uomini, donne e bambini disperati alla ricerca dei propri cari. In questo borgo di 130mila anime dove s'incontrano due tra i fiumi più importanti della regione, il Neelam e il Jhelum, migliaia hanno dormito nello stadio di cricket trasformato in tendopoli e all'alba di ieri si sono risvegliati con la consapevolezza che non si era trattato di un brutto sogno, ma della «realtà inimmaginabile» di cui ha parlato ieri il ministro degli Interni Aftab Sherpao in una drammatica conferenza stampa.

A Muzaffarabad e dintorni è stata scritta molta della storia del conflitto indo-pakistano, qui nel ‘47 giunsero i «volontari» pashtun spediti da Islamabad per salvare i fratelli musulmani dalle grinfie del potere di Delhi, e ovunque si addestravano i mujahiddin spediti clandestinamente sull'altro versante del confine kashmiro amministrato dall'India per compiere attentati e stragi, uno sforzo surrealmente inutile oggi che i due paesi, dopo mesi di tardive trattative di pace e la riapertura dei collegamenti stradali, hanno dovuto chinare il capo al volere di una natura violenta e irrispettosa di confini e fili spinati. Anche nel Kashmir indiano i morti sono stati centinaia, tra i 300 e i 900 secondo le prime stime fornite alla stessa leader del Congresso indiano Sonia Gandhi giunta ieri a Uri e Baramulla, dove sono morti anche molti soldati indiani e crollate parecchie garritte di avvistamento sul confine.

A Muzaffarabad e ancora di più nei villaggi isolati lungo la cosiddetta Linea di Controllo teatro di ben tre guerre, molti dei feriti sono stati medicati con mezzi di fortuna da equipe di medici e volontari che non avevano più bende per fasciare arti e legamenti rotti, né alcool per disinfettare le ferite, né antibiotici per curare le infezioni.

Le televisioni indiane e pachistane mostrano a ogni ora del giorno e della notte scene di devastazione alternate a immagini di recuperi dei corpi dalle macerie. Testimoni raccontano di file e file di scampati che si aggiravano lungo le strade delle montagne e delle valli sconvolte dal sisma coi loro cari morti avvolti in lenzuola e stoffe per raggiungere qualche ospedale o centro di assistenza. Ma nessuna parola può sostituire gli sguardi degli sfollati di fronte alle macerie della propria casa, né il pianto incessante dei genitori che hanno perso i loro figli nel crollo delle scuole di Mansehra e della valle di Balakot, dove in diverse aree non sono ancora giunti i soccorsi.

Molti hanno riferito che si sentivano ancora lamenti ieri mattina provenire dai detriti degli edifici dove 400 bambini sono rimasti sepolti. «Salvatemi per favore, chiamate mio padre, chiamate mia madre», ripeteva incessantemente con voce sempre più flebile un bambino. Ma i parenti, centinaia, accorsi per cercare spesso a mani nude i propri figli, potevano ben poco contro macigni pesanti e calcinacci e travi di ferro che ancora tengono imprigionati i corpi.

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