Da Corriere della Sera del 12/10/2005

Dopo il sisma di sabato, in molte zone non sono ancora arrivati i soccorsi

Pakistan, tra gli scampati con l’incubo dei briganti

La gente: «Fu lo stesso a New Orleans. Con gli aiuti finirà»

di Lorenzo Cremonesi

BALAKOT (Kashmir Pachistano) - Rubare per sopravvivere. È il brigantaggio della disperazione. Il gruppo di uomini, saranno una decina, tutti giovanissimi con gli occhi della fame e i vestiti laceri osserva il traffico dai bordi della strada. Quando giunge una vettura particolarmente carica minaccia il guidatore con legni e coltelli. Lui non può fare nulla, intrappolato nella lunga fila che procede lentissima. Ed è un gioco da ragazzi farsi dare il «bottino»: coperte usate, pane secco, mele, banane, pacchi di gallette, se va bene qualche conserva di frutta sciroppata e scatolette di carne. La scena avviene proprio davanti a noi, mentre come tanti sulla via per Balakot abbiamo abbandonato la nostra auto ormai paralizzata tra migliaia di vetture, carri e carretti carichi all’inverosimile. I più hanno camminato oltre 20 chilometri per arrivare. «Se non si muove il governo, tocca a noi intervenire», dice la gente. Tra loro Mohammad Nabab se la prende con i poliziotti che cercano di non farlo passare spiegando che è per il suo bene, devono proteggerlo dalle rapine. «Cosa importa se ci sono i ladri? Anche gli americani, che pure sono molto più ricchi di noi, si sono dati al saccheggio a New Orleans dopo Katrina. Qui sono poveri ladri di polli, lasciate che arrivino gli aiuti e subito spariranno».

È la risposta corale della solidarietà pakistana per le vittime del terremoto. Familiari, parenti e amici degli abitanti si riversano nella vallata, dopo oltre 15 ore di viaggio dalla capitale. Ma quando finalmente arrivano sono colti dallo scoramento. La città letteralmente non c’è più. Balakot fino alle 8 di sabato contava oltre 50 mila abitanti sulle pendici delle montagne del Kashmir. Un luogo di villeggiatura a 190 chilometri dalla capitale, noto per l’aria buona, come magnificano i cartelloni pubblicitari rimasti in piedi, le pinete e i torrenti d’acqua limpidissimi. Ora non resta che una collina di melma marrone, da cui spuntano grovigli di macerie, fili di ferro, infissi spezzati, sedie di plastica, giocattoli a pezzi. «Praticamente il 100% delle case è distrutto o inabitabile. I morti potrebbero essere oltre 25 mila. Dopo i soccorsi dovremo pensare a ricostruire la città dal nulla», ammette il maggiore Nasim, ufficiale del contingente di circa 3 mila uomini inviato da Islamabad. I suoi uomini si mischiano ai civili nell’opera di soccorso. Molti scavano a mani nude, i più fortunati usano qualche mazza ferrata. «Abbiamo solo 20 ruspe militari. Troppo poco e le strade sono ancora in uno stato pessimo, sconvolte dai continui smottamenti di terra. Non riusciamo a far giungere abbastanza materiale pesante», aggiunge il maggiore.

Dall’altra parte della strada si trovano i resti dell’Hotel Qotur. Impossibile non notarlo: il terzo piano si è appoggiato, storto ma intatto, sui muri schiacciati del primo e del secondo. Un insopportabile olezzo di cadaveri in decomposizione regna sovrano. «Ci sono almeno 30 morti là sotto. Ma non sappiamo come recuperarli», dice un soldato.

A mezzogiorno due lampi accecanti squarciano il cielo già plumbeo. E pochi secondi dopo con il tuono arrivano i primi scrosci d’acqua. Pioverà per tutto il pomeriggio, una vera maledizione. «La pioggia cementa il terriccio sulle macerie, inzuppa la gente senza difese, rallenta i lavori dei soccorritori. Così sarà ancora più difficile» dice Miao Changung, uno dei membri del team militare cinese mandato da Pechino con seghe elettriche, materiale per il recupero delle vittime e un ospedale da campo. Fa freddo. A guardare in alto, la neve già imbianca le cime sopra i 2 mila metri. Le donne e i bambini rintanati sotto le tende non sanno come scaldarsi. A dire il vero non sono tende, ma rifugi di fortuna, fatti di coperte lacere e teli di plastica. Sotto una tettoia traballante ci sono una ventina di bambini, il più piccolo avrà due anni, e alcuni adulti dall’aria spersa. Guardano dall’altro lato della strada, dove alcuni volontari adagiano nella fossa comune una sorella, la madre, un figlio. Sono appena scesi dal villaggio di Ganul, 18 chilometri da qui. Dice uno di loro, Ashed Mohammad, negoziante di 34 anni: «Abbiamo camminato da soli con i nostri bambini da questa mattina all’alba. Siamo scappati dal nostro villaggio perché sono tutti morti. E nessuno è venuto ad aiutarci. Ci sono tanti feriti là sopra. Ma restano abbandonati sotto la pioggia. Il mondo non sa neppure che esistiamo».

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