Da La Repubblica del 18/10/2005

Nella regione una lotta senza quartiere in cui si distinguono il ministro Castelli e settori di An

Calabria, duello finale con i pm

Accuse, ispezioni e bocciature: così la Cdl torchia le toghe

La procura di Reggio è ridotta a un simulacro: negli ultimi sette anni hanno lasciato undici pubblici ministeri. Domani il caso Catanzaro al Csm

di Carlo Bonini

ROMA - Per capire che fine ha fatto lo Stato in Calabria, con quale fardello di veleni e ipocrisie comincia la caccia agli assassini di Francesco Fortugno, si può cominciare dalla fine. Da quello che accadrà domani in via Giulia. Quando i cinque magistrati calabresi cui il governo chiede oggi di venire a capo di «un atroce e insopportabile delitto» saranno a Roma, a consulto negli uffici della Procura nazionale antimafia. Ognuno di loro è un prigioniero: il procuratore della repubblica di Catanzaro Mariano Lombardi; il procuratore della repubblica di Reggio Calabria Antonio Catanese; il procuratore aggiunto di Catanzaro Mario Spagnuolo; il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Francesco Scuderi; il sostituto procuratore distrettuale di Catanzaro Gerardo Dominjanni. Su ognuno di loro pesa, a titolo e in modo diverso, la sfiducia di un pezzo dello Stato, il fantasma di un sospetto.

Per gli ispettori del ministro di giustizia Castelli, Mariano Lombardi e Mario Spagnuolo non dovrebbero restare un solo minuto di più negli uffici che occupano. Le conclusioni di un'ispezione ministeriale trasmesse recentemente al Csm ne raccomandano il trasferimento per incompatibilità ambientale e funzionale. Per aver messo mano a «procedimenti antimafia che non avrebbero dovuto o potuto trattare». A cominciare da quello che un anno fa afferrò il sottosegretario alla giustizia Giuseppe Valentino (Alleanza nazionale) e il vicepresidente della commissione antimafia Angela Napoli (Alleanza nazionale), svelandone malaccorte conversazioni telefoniche con opachi figuri inquisiti per ‘ndrangheta.

Tra i veleni si sono mossi e si muovono anche Antonio Catanese e Francesco Scuderi. Sono stati interrogati dal loro collega Spagnuolo per dare conto di come venga amministrata la giustizia negli uffici della Procura di Reggio che dirigono. Con quali criteri vengano assegnate o ritirate le deleghe a quei pubblici ministeri che si avventurano sullo scivoloso terreno delle inchieste sui rapporti tra ‘ndrangheta e politica. Ma con Spagnuolo ha un antico conto aperto anche Gerardo Dominjanni (oggi in attesa di distacco al ministero di giustizia). A Catanzaro, dove è stato procuratore aggiunto, contestò la nomina del collega, la sua legittimità, i poteri che così gli venivano riconosciuti sui magistrati di Reggio.

Guido Calvi, senatore ds e membro della commissione antimafia, osserva: «In Calabria, l'intero apparato di contrasto alla ‘ndrangheta, a cominciare dalla magistratura, si è letteralmente dissolto. E per questo abbandono tutti sono responsabili. Non esistono innocenti». La Procura di Reggio è ridotta a un simulacro. Negli ultimi sette anni, hanno mollato undici pubblici ministeri: Giovanni Taglialatela; Stefano Billet; Luca Palamara; Alessandra Provazza; Ettore Squillace Greco; Giuseppe Verzera; Roberto Pennisi; Alberto Cisterna; Vincenzo D'Onofrio; Barbara Zuin; Federica Ormanni. Alla Procura di Catanzaro è vacante il 25 per cento degli organici e le sei procure della Repubblica che fanno parte di quel distretto giudiziario (Cosenza, Crotone, Lamezia Terme, Paola, Rossano, Vibo Valentia) sono tutte sotto organico. In Calabria nessuno ha voglia di restare. E chi può, appena può, ne fugge. Il 15 gennaio di quest'anno, il Procuratore generale di Reggio Calabria Giovanni Antonino Marletta, inaugurando l'anno giudiziario, ha detto: «I giovani magistrati assegnati alle disagiate sedi calabresi hanno il desiderio di rientrare al più presto. Il turnover è continuo. Un esempio? Da tre anni, nonostante le istanze e gli incontri al ministero, la Procura della repubblica presso il tribunale dei minori è in mano a un solo, seppur valoroso, giovane magistrato». Impossibile depositare conoscenze investigative. Illusorio assicurare una continuità di lavoro. Favolistico ritenere di poter chiudere entro i tempi della prescrizione i processi arrivati a dibattimento.

Per chi resta, è un lento sprofondare nei fanghi e nei miasmi di uffici giudiziari stretti tra l'intimidazione delle cosche, sordi conflitti interni e una violenta resa dei conti di segno politico che ha trovato varchi al ministero di giustizia e in Parlamento. Delle ispezioni disposte da Castelli alla Procura di Catanzaro, si è detto all'inizio. Ma di un conto aperto tra un pezzo della maggioranza di governo – a partire da Alleanza nazionale - e i magistrati calabresi è testimone anche l'interrogazione dell'agosto scorso con cui il senatore Giuseppe Bucciero ha chiesto a Castelli la testa del pubblico ministero di Catanzaro Luigi De Magistris, titolare di inchieste sull'ex presidente della regione Giuseppe Chiaravallotti e ora accusato di «colpire deliberatamente con lo strumento giudiziario settori della vita pubblica di cui non condivide le scelte politiche».

Sull'orlo di questo pozzo nero, danza il Consiglio superiore della magistratura. A palazzo dei Marescialli, il centro-destra ha già bocciato la proposta di aumento degli organici della Procura di Catanzaro e la nomina a procuratore aggiunto di Spagnuolo. Mercoledì ne tornerà a discutere e non è difficile immaginare l'esito. Verosimilmente, non ci sarà tempo di discutere come debba e possa essere amministrata la giustizia in Calabria. Ne guadagnerà soltanto la sindrome da assedio che segna quegli uffici giudiziari. Con il risultato di renderli ancor più prigionieri, nel loro lavoro e nelle loro parole, della cupa ossessione che in Calabria tutto sia espressione di ‘ndrangheta. La politica che cerca vendetta, le imprese e la pubblica amministrazione che – come ancora di recente ha osservato la Confindustria – per il fatto stesso di lavorare in quella terra disgraziata e non avere la forza di denunciare le intimidazioni di cui sono vittime non per questo sono o devono essere espressione della mafia che le ricatta.

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