Da La Repubblica del 17/10/2005

Dichiarazione di guerra delle cosche della Locride dopo un lungo silenzio "politico"

Un assassinio a urne aperte così riparte la sfida mafiosa

di Attilio Bolzoni

QUESTI cinque colpi di pistola sono una dichiarazione di guerra. Contro chi governa a Catanzaro. E l'hanno firmata con un delitto eccellente. Carico di simbologie. Per quando e per dove l'hanno eseguito: nel seggio, a urne aperte.

Così la mafia della Locride è uscita da un lungo silenzio "politico" e ucciso Francesco Fortugno, così ha fatto fuori uno di quegli uomini che da pochi mesi stanno tentando di cambiare una Calabria senza legge.

I boss vogliono far capire a tutti che comandano loro lì, nella Locride e sull'Aspromonte, nei palazzi della Regione e al porto di Gioia Tauro. Hanno deciso di schierarsi apertamente contro quel processo di rinnovamento che è appena partito, hanno voluto colpire proprio lui, proprio Francesco Fortugno perché era l'amico che il governatore Loiero aveva nella Locride. E in un giorno molto particolare. A costo di far rumore e abbandonare quella strategia di non attacco frontale al potere, quel silenzio profondo che aveva lasciato isolate per tanti anni cinque province intere dal resto d'Italia. È una sfida quella che lanciano. E Fortugno era il bersaglio ideale di questa nuova "linea" della ‘ndrangheta calabrese.

Era nell'aria che stava accadendo qualcosa tra Catanzaro e la punta estrema del Paese, era la conseguenza più logica di ciò che era avvenuto prima. Quei 323 «atti intimidatori» degli ultimi 18 mesi contro i sindaci, contro gli imprenditori, contro i poliziotti e i carabinieri. A fine primavera aveva ricevuto le pallottole in una busta anche il governatore Agazio Loiero, colpevole di aver licenziato 70 burocrati nominati in extremis dalla precedente giunta di centrodestra. Un atto non gradito. Nella sua abitazione in città, in quella in campagna e pure in quell'altra al mare gli hanno consegnato anche una sua foto con la scritta: "Condannato a morte".

Tutti avvertimenti. Uno dopo l'altro fino ai due sicari sbucati nell'androne di quel palazzo di Locri dove Francesco Fortugno stava votando alle primarie dell'Unione.

Omicidio di mafia puro quello del vice presidente del Consiglio regionale, chirurgo che fino a qualche anno fa lavorava nel pronto soccorso dove l'hanno portato per salvarlo da quei 5 colpi di pistola. Era in aspettativa da quando era stato eletto per la Margherita nell'aprile scorso e con più di 8.500 voti. Era alla seconda legislatura, aveva mantenuto un contratto alla facoltà di Medicina di Catanzaro. Famiglia cattolica la sua.

Suo suocero è Mario Laganà, che è il presidente della calabrese della Margherita e a cavallo tra gli anni 70 e 80 era un deputato della Dc. Anche Fortugno aveva cominciato a fare politica in quel periodo. Prima consigliere comunale, poi vice presidente di un Usl, l'impegno nella Cisl medici e poi ancora il salto alla Regione. «Un uomo mite, perbene, quello che è accaduto è di una gravità inimmaginabile», dice il sindaco di Locri Carmelo Barbaro. Un uomo mite nell'angolo di Calabria più tormentato, la Locride. Fino al ‘91 nelle montagne che stanno là dietro avevano messo a segno 147 rapimenti, tutti i sequestrati erano segregati nei casolari e tra i boschi di Platì, di San Luca, di Africo. Poi i pastori si sono riciclati nel grande business della ‘ndrangheta: la cocaina. Anche loro a fare soldi con i cartelli della droga colombiani.

Ma da qualche mese certi equilibri nella Locride non ci sono più. Si contano 24 omicidi di mafia dall'inizio dell'anno. E solo lì. «C'è una situazione gravissima e questo delitto è un segnale molto inquietante», spiega Alberto Cisterna, magistrato calabrese che è in forza alla Procura nazionale antimafia. A metà settembre, tutti i sindaci della Locride si erano incontrati nella prefettura di Reggio per denunciare «la sovranità mafiosa» dei loro territori. C'era paura quel giorno, il 20 di settembre, nella sala dove il prefetto aveva convocato una riunione del Comitato per l'ordine pubblico e la sicurezza. Per la prima volta i sindaci avevano parlato chiaro, senza paura. Chiedevano protezione, chiedevano garanzie contro lo strapotere dei boss. Come fa da mesi, e sempre più solo, il presidente degli industriali Filippo Callipo.

È tutta la Calabria criminale che è in fermento, che prova a "dialogare" con la politica. Come usano i mafiosi: con le armi. È del febbraio del 2004 l'attentato Saverio Zavettieri, l'assessore regionale alla Pubblica istruzione del governo presieduto da Chiaravalloti.

Colpi di fucile contro la vetrata di casa. È del luglio successivo l'omicidio di Pietro Araniti, ex assessore regionale all'Urbanistica.

Avvertimenti, delitti per le scelte della politica. Ma mai i boss della ‘ndrangheta si erano esposti tanto come hanno fatto a Locri. Mai negli ultimi 15 anni. Risale al 9 agosto del 1991 l'omicidio del pubblico ministero della Corte di Cassazione Antonino Scopelliti, un "favore" che non si poteva rifiutare ai siciliani di Totò Riina. E risale all'agosto del 1989 l'agguato contro l'ex presidente della Ferrovie Lodovico Ligato, ucciso per la spartizione di appalti e soldi.

Poi però, la ‘ndrangheta ha deciso - al contrario di Cosa Nostra - di far finta di stare in disparte. E di occuparsi dei suoi affari in silenzio. Ha conquistato in Europa il monopolio del traffico di coca. E ha salvato il sistema criminale italiano dopo le stragi palermitane del 1992. È rimasta nell'ombra fino a quando ha capito che non poteva più farlo. E oggi la Calabria sembra diventare la Sicilia degli anni più infami.

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