Da La Repubblica del 17/10/2005
Originale su http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/cronaca/vicepresid/asspolitico...

IL COMMENTO

Assassinio politico

di Giuseppe D'Avanzo

PER L'ASSASSINIO di Francesco Fortugno, che almeno si evitino lacrime di coccodrillo. Nessuno può dirsi innocente. Tutti sapevamo che presto, in Calabria, ci sarebbe scappato il morto "eccellente", come si dice. Chiunque da mesi poteva coglierne i presagi in una regione schiacciata dalla criminalità organizzata.

Paralizzata dal sottosviluppo, abbandonata - solitaria - al suo deprimente destino. Come se quella terra fosse già di nessuno, sconnessa dal Paese, dall'attenzione dello Stato e dell'opinione pubblica nazionale. E non un lembo di penisola, infestato come un letto pulcioso, dalla "prima mafia d'Italia".

La 'ndrangheta, che soltanto un luogo comune ormai bizzarro considera la cugina malmessa di Cosa Nostra, può vantare 112 cosche. Un affiliato ogni 345 abitanti, un tasso di omicidi 17 volte superiore a quello nazionale. Un volume di affari neri che, secondo alcune analisi, supera i 35 mila milioni di euro, di cui 22.340 prodotti dal traffico di droga e il resto da appalti pubblici e da estorsioni che, secondo la Confesercenti, taglieggiano il 50 per cento dei commercianti e degli industriali (il 70 per cento a Reggio Calabria). Sono cifre che fanno oggi della 'ndrangheta "la più pericolosa e pervasiva mafia con una progressiva dimensione internazionale".

È un potere militare, economico e politico che non accetta di essere messo in discussione nemmeno negli aspetti più marginali. Lo testimonia il clima di intimidazione continuo che ogni istituzione o rappresentante delle istituzioni deve subire. Minacce. Attentati con bombe. Fucilate alle porte di casa. Incendi di auto e di abitazioni. Ne sono stati vittima, in tempi recenti (e l'elenco è incompleto) i sindaci di Reggio Calabria, San Giovanni, Seminara, Sinopoli, Melito Porto Salvo, Casignana, il vice sindaco di Palmi, i magistrati che affrontano i processi alle cosche (Cisterna, Di Palma, Gratteri, Mollace, Pedone)... Uno scenario che ha convinto, quattro mesi fa, il presidente della Confindustria calabrese, Filippo Callipo, ad appellarsi al capo dello Stato per invocare la presenza nella regione dell'esercito.

Su questo pozzo scuro si è affacciato, da maggio, il presidente della Regione Agazio Loiero, di cui Francesco Fortugno era - nella Locride - il fiduciario politico.

Nei primi cento giorni, Loiero fa alcune mosse "rivoluzionarie" per la moralizzazione della vita pubblica. Sostituisce settanta alti burocrati negli enti regionali. Lo spoil-system destabilizza gli equilibri. Cancella con un colpo di spugna la rappresentanza degli interessi opachi. Delibera di costituire la Regione "parte civile" in tutti i processi di mafia. Annuncia di voler trasferire, entro il giugno del 2006, importanti competenze dalla Regione alla Provincia riducendone i dipendenti da 4.800 a 1.800. In un'istituzione dove, negli ultimi 27 anni, non c'è stato mai un bilancio approvato nei termini di legge, prova a tenere in ordine i conti e le delibere.

La strategia ridisegna l'intero quadro di riferimento istituzionale. Chi aveva "l'amico dell'amico" seduto nella poltrona che conta, non lo trova più in quel posto. O, se ce lo trova, lo scopre senza competenze e privo di potere. L'intero reticolo affaristico-criminale entra in fibrillazione e diventa minaccioso. Le scosse del sisma scuotono la stessa maggioranza del presidente che l'ha avuta vinta sull'avversario del centrodestra con oltre il venti per cento in più.

Alla 'ndrangheta deve essere sembrato giunto il tempo di mettere mano alla pistola per arginare lo smottamento. Loiero riceve per posta proiettili inesplosi e usati, una sua foto con un buco in testa. Dice di non voler arrestare la sua "furia riformatrice".

Ecco, dunque, il clima e le ragioni che hanno preceduto e preparato, nel silenzio di tutti, la morte di Francesco Fortugno. Il suo assassinio non può che dirsi politico. "Una cosa brutta assai", dice un investigatore con una formula che, per chi lavora nel Mezzogiorno a questi affari, vuol dire "è terribile quel che è accaduto, ma sarà orrendo quel che accadrà".

Perché se uccidi in pieno giorno, dinanzi a uno storico palazzo di una cittadina e decine di testimoni, il vicepresidente del consiglio regionale sulla scena di un appuntamento politico, non vuoi soltanto spegnere la vita di Francesco Fortugno. Se ci fossero stati "interessi privati", lo avrebbero ammazzato "in privato" mentre tornava a casa. Lungo la strada per Reggio Calabria. Una mattina qualsiasi dinanzi all'ospedale dov'era primario.

Le cosche di Locri, Africo e Siderno hanno voluto offrire una pubblica rappresentazione della loro violenta determinazione affinché tutti capiscano, affinché la politica capisca. Messaggio forse superfluo per i riformatori calabresi. Non si sono mai fatto illusioni sul sentiero che hanno imboccato. Hanno compreso da mesi il significato delle minacce, gli interessi che proteggono, i pericoli che incombono. Chi non ha capito o non ha voluto capire, siamo noi.

Noi che pensiamo la Calabria come una terra perduta e il tentativo di Loiero un fenomeno trascurabile. Non abbiamo nessuna attenuante. Poco più di due mesi fa, Francesco Cossiga pubblicamente si chiedeva: "Il presidente del Consiglio, i ministri dell'Interno e di Giustizia, il capo della polizia, i comandanti dell'Arma dei carabinieri e della Guardia di Finanza hanno reale contezza della gravità dei reiterati avvertimenti di queste ore o, come temo, circoscrivono la pratica a normale routine? E sono in grado le forze politiche di assicurare a Loiero una costante mobilitazione della pubblica opinione, aiutando a tenere i riflettori ben accesi su questa grave emergenza? O vogliamo aspettare che ci scappino uno o più morti?".
Ora il morto c'è stato. Niente lacrime di coccodrillo. Fate qualcosa.

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