Da La Repubblica del 17/10/2005

Il procuratore Fitzgerald sta valutando l'incriminazione di "alti funzionari" della Casa Bianca per la fuga di notizie sulla spia Valerie Plame

Cia-gate, dopo Karl Rove anche Cheney nella tempesta

E sul caso Miller il "New York Times" si divide

di Alberto Flores D'Arcais

NEW YORK - Karl Rove pronto a dimettersi, il procuratore speciale Patrick Fitzgerald che medita se, chi e con quali accuse incriminare alti funzionari della Casa Bianca, la redazione del New York Times spaccata: a meno di due settimane dalla fine dell'inchiesta (prevista per il 28 ottobre) il Cia-gate sta diventando la "news" più seguita e più complicata degli Stati Uniti.

Nessuno è in grado di dire con precisione cosa deciderà Fitzgerald - noto per essere un mastino che non guarda in faccia nessuno - ma nel mirino del procuratore sembra sia finito anche il vicepresidente Dick Cheney, diretto superioere di quel Lewis `Scooter'Libby che è stato indicato da più di un testimone al Grand Jury come la possibile fonte che ha soffiato alla stampa il nome dell'agente della Cia Valerie Plame, moglie dell'ex ambasciatore americano Joseph Wilson III.

Stando alle ricostruzioni dei giornali Usa (basate su fonti anonime e sugli avvocati dei principali protagonisti) Fitzgerald - nel lungo interrogatorio (quattro ore) di Karl Rove e nella deposizione della "investigative reporter" del New York Times Judith Miller - avrebbe insistito per capire il possibile ruolo avuto nella vicenda dal vicepresidente. Il procuratore speciale potrebbe trasformare l'accusa iniziale («fuga di notizie legata a un agente segreto»), per cui i maggiori indiziati sono Karl Rove e Lewis Libby, in quella di «complotto» architettato dal "Gruppo Iraq della Casa Bianca", la task force formata nell'agosto 2002 per preparare la guerra contro Saddam Hussein. Un'accusa che sarebbe un durissimo colpo per Bush e la sua amministrazione ma che è estremamente difficile, se non impossibile, da provare. In questo caso il procuratore potrebbe chiedere un tempo supplementare per la sua inchiesta e ci potrebbe essere anche un nuovo Grand Jury.

Al momento l'ipotesi considerata più probabile è quella che prevede l'incriminazione di Rove o Libby (o tutti e due). Che il "cervello" della Casa Bianca (come viene spesso definito Rove) possa essere incriminato ne è convinto anche Bill Kristol, direttore del Weekly Standard ed esponente di spicco dei "neocon". Secondo il settimanale Time - che cita fonti legali della Casa Bianca - Fitzgerald starebbe considerando per Rove quanto meno l'accusa di «spergiuro»; per non avere inizialmente rivelato al Grand Jury di aver parlato di Valerie Plame con il giornalista del settimanale Matthew Cooper (anche lui ha deposto come testimone). Gli avvocati della Casa Bianca avrebbero già pronta la linea di difesa - Rove non ricordava il colloquio e solo in un secondo tempo gli è tornata la memoria - ma in ogni caso il principale consigliere di Bush avrebbe già preso in considerazione una lettera di dimissioni o di mettersi «in aspettativa senza stipendio».

Di Valerie Plame e di un suo ruolo alla Cia il capo di gabinetto del vice presidente Dick Cheney, Lewis Libby, aveva discusso con la giornalista del New York Times, Judith Miller, già due settimane prima che il marito, il diplomatico Joseph Wilson, denunciasse sul quotidiano newyorchese come costruite ad arte le informazioni fatte circolare dalla Casa Bianca sulle armi di sterminio in possesso di Saddam prima dell'inizio della guerra in Iraq. Per non avere rivelato il nome della sua fonte la Miller ha fatto 85 giorni di carcere.

Sull'intera vicenda e sul ruolo avuto dalla reporter ieri il New York Times è intervenuto con un lunghissimo articolo di prima pagina e con due intere pagine interne. Nell'articolo principale il giornale ripercorre tutte le fasi dell'inchiesta, rivela particolari inediti e i gravi dissensi che ci furono (e ci sono tuttora) verso il proprietario del giornale Arthur Sulzberger e verso il direttore Bill Keller che difesero a spada tratta il "ruolo ambiguo" avuto dalla Miller nella vicenda - sulla quale peraltro la giornalista non ha mai scritto - facendo di fatto un danno al giornale che venne ripetutamente battuto dalla concorrenza: e compreso il fatto che la reporter decise di andare in galera per difendere la sua fonte anche se la stessa fonte (e cioè Libby) l'aveva già autorizzata un anno fa a fare il proprio nome. Articolo che si conclude con una valutazione senza mezzi termini: «Il giornale ha speso milioni di dollari in spese legali per la signora Miller. Si è autocensurato in uno dei più grossi scandali dei nostri giorni. Chiedeva il sostegno del pubblico, ma non era in grado di dare delle risposte».

Nella pagina accanto la Miller si difende in un altro lungo articolo in cui dà la propria versione dei fatti: ammette di avere annotato sui suoi appunti relativi agli incontri con Libby il nome dell'agente della Cia come "Valerie Plame" e poi come "Valerie Wilson"; sostiene però di non ricordare chi fosse stato a fargli quel nome, ma di escludere che questi fosse Libby: «I miei appunti dimostrano che Libby aveva cercato sin dall'inizio, prima che il nome di Wilson divenisse pubblico, di proteggere il suo capo dalle accuse di Wilson».

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