Da El Pais del 17/10/2005

Gaza, tra i profughi di una nazione

Da tre generazioni milioni di palestinesi vivono nelle bidonville

Gli israeliani sono partiti, ma a Gaza e Cisgiordania le condizioni di vita rimangono pessime
Per gli storici "revisionisti" i leader sionisti misero in atto un'imponente operazione di pulizia etnica
La cifra dei disoccupati sfiora il settanta per cento, questo spiega la rabbia della popolazione
Sporcizia, disperazione e povertà: qui tutto ricorda il triste spettacolo degli slums di Lima

di Mario Vargas Llosa

Del milione e trecentomila palestinesi che vivono nei 365 chilometri quadrati di Gaza - il luogo con la maggiore densità di popolazione del Medio Oriente - oltre due terzi stanno ammucchiati in quelle topaie umane che sono i campi profughi, prodotti della cosiddetta «guerra di indipendenza» di Israele, nel 1948, quando circa ottocentomila palestinesi furono scacciati dai loro villaggi e spediti in esilio. Soltanto centocinquantamila circa rimasero in Palestina. Mezzo secolo dopo, esistono ancora campi profughi a Gaza, in Cisgiordania e in Siria, in Libano e in Giordania, dove vivono ancora oggi vari milioni dei sette che si calcola conti complessivamente la popolazione palestinese (un milione di questi sono cittadini israeliani).

Per molto tempo, Israele ha accusato i Paesi arabi di aver forzato quello sradicamento, incitando i palestinesi ad abbandonare i loro villaggi, e successivamente di averli mantenuti in quei ghetti, senza integrarli nelle loro società per ragioni politiche, cioè per poter accusare Israele di avere una vocazione imperialista e colonialista.

Ma i cosiddetti storici «revisionisti» israeliani, come Benny Morris e Ilan Pappe, hanno sconfessato questa tesi, dimostrando che l'espulsione degli arabi durante la guerra del 1948 fu pianificata ed eseguita dai leader sionisti di quell'Israele che nasceva come imponente operazione di pulizia etnica. Diverse centinaia di villaggi e comunità arabe scomparirono, e le loro vestigia sono oggi sepolte sotto le floride e moderne città israeliane. Ilan Pappe, durante la giornata che ho trascorso insieme a lui a Haifa, nell'università dove insegna, mi ha mostrato i luoghi, oggi efficienti campi coltivati o centri industriali, dove si trovavano alcuni di quei villaggi palestinesi eclissatisi nel 1948, e che oggi esistono solo come fantasmi nella memoria dei profughi e nell'ostinata volontà di risuscitarli di qualche storico anticonformista.

Ho visitato tre campi profughi, due a Gaza, quello gigantesco di Yabalia e quello più piccolo di al-Shatti, e uno, quello di Amari, a Ramallah. In tutti e tre ho avuto la sensazione di attraversare i cosiddetti pueblos jóvenes di Lima, ma non quelli più sviluppati, quelli più poveri e affollati dove negli anni ‘80 i contadini che fuggivano dalla fame e dal terrorismo delle Ande tiravano su le loro baracche di fango, le loro case di paglia. Nonostante la distanza e le diverse circostanze, lo spettacolo era quasi identico: affastellamento, sporcizia, montagne di spazzatura per le strade, topi, assenza di energia elettrica, acqua corrente e fognature, proliferazione di bambini scalzi e, accanto a qualche solida costruzione, una moltitudine di case incomplete, paralizzate all'improvviso prima di completare il tetto, una parete o una stanza, case che sembravano mutilate e sventrate. Anche se qui, forse, l'ammucchiamento tende a essere maggiore, come se, per sfruttare meglio lo spazio e fare posto ad altra gente, o per ripararsi e proteggersi, le case si fossero ristrette e sovrapposte le une alle altre, fino a dare vita ad autentici dedali urbani. E come laggiù in Perù, anche qui esiste un forte senso dell'ospitalità, un impegno della gente per accogliere il forestiero con qualcosa, un pezzo di pane, una tazza di tè.

Dà le vertigini pensare che sono ormai tre o quattro generazioni che la gente di questi campi vive in simili condizioni esecrabili, in altre parole che la stragrande maggioranza di loro non conosce altra forma di vita che questa morte lenta. E che la gran parte di loro non ha nemmeno mai avuto l'occasione di conoscere i luoghi da cui dicono di provenire. Perché nessuno, nei campi profughi, quando gli domandi dov'è nato, risponde: «A Yabalia», oppure «Ad al-Shatti» oppure «Ad Amari». Perfino i più piccoli rispondono con il nome del villaggio o della città dove sono nati i loro genitori o nonni, esorcismo magico che vorrebbe in qualche modo cancellare psicologicamente la tragedia dello sradicamento sofferta dalle loro famiglie, e anche esprimere l'illusione di tornare un giorno al focolare originario.

Quasi tutti i profughi con cui ho parlato, quando domandavo loro quale fosse il problema più grave a cui dovevano far fronte, mi rispondevano: «La mancanza di lavoro». Gaza viveva, o sopravviveva, grazie ai suoi abitanti che attraversavano la frontiera e andavano a lavorare come agricoltori, operai, artigiani o domestici in Israele. Quando, a partire dal 1991, il governo israeliano, adducendo ragioni di sicurezza - molti terroristi venivano da Gaza - cominciò a limitare i permessi di lavoro, nella Striscia dilagò la disoccupazione e il livello di vita precipitò. Per supplire a quei lavoratori, Israele importa rumeni, filippini, thailandesi e perfino sudamericani. Nei periodi migliori, ogni giorno erano centomila gli arabi che attraversavano gli sbarramenti militari della frontiera.

Oggi sono soltanto poche manciate di privilegiati, fra le cento e le cinquecento persone. Per questo motivo la disoccupazione a Gaza arriva al 70% della popolazione e le sue città e i suoi campi profughi offrono questo spettacolo drammatico di abbandono, inattività forzata e decrepitezza.

Le cifre fornite dalle organizzazioni internazionali sullo stato di salute, sulle malattie, sulla mortalità infantile e sui suicidi nei campi profughi sono da brividi. Il dottor Mahmud Sehwail, nel suo Centro di riabilitazione e cura per vittime di torture, mi ha riferito di un'indagine realizzata poco tempo fa, da lui e dai quattro psichiatri che lo accompagnano, fra i bambini palestinesi con problemi psicologici: quasi due terzi di loro hanno manifestato il desiderio di morire. Non sorprende quindi che si avverta un pessimismo tenace e generalizzato nei campi profughi, quando si chiede a uomini e donne se hanno la speranza che con la partenza dei coloni e dei soldati israeliani le cose possano migliorare per loro.

Sguardi scettici, espressioni indolenti, dubitative, tristezza e collera. Ma questo sentimento di furore, nei campi profughi, si rivolge tanto contro l'Autorità nazionale palestinese che contro l'occupante ebraico, e forse più contro la prima che contro il secondo. Le accuse sono sempre le stesse: sono corrotti, non hanno realizzato niente di quello che hanno promesso, hanno rubato il denaro delle donazioni. Quando insistevo chiedendo: «Anche il presidente Arafat?», vacillavano, cambiavano argomento, facevano dei distinguo: «Lui no, i suoi collaboratori, tutti gli altri».

In tutte le case in cui sono entrato c'erano giovani o anziani che erano stati nelle carceri israeliane o che avevano figli, o fratelli, o genitori o parenti che ancora erano in prigione. Questo è il motivo per cui la conoscenza dell'ebraico è tanto diffusa a Gaza e in Cisgiordania. E tutti, hanno subito in qualche momento le incursioni violente di pattuglie militari o di polizia israeliane, o hanno visto demolire case, e tutti i bambini muovono la testa affermativamente, con orgoglio o con malizia, mostrando il pugno, quando chiedo loro se hanno mai lanciato pietre contro i coloni o contro i soldati.

A volte, però, più che la collera contro l'occupante e la disperazione per la mancanza di lavoro, quello che maggiormente mina il morale dell'umanità derelitta che popola i campi profughi è forse la claustrofobia, la sensazione di vivere in campi di concentramento, dove tutte le porte sono sorvegliate da guardiani severi che, con un pretesto qualsiasi, si abbandonano alla violenza.

Ottenere un permesso per entrare in Israele è complicato, spesso impossibile. Ma prima era difficile anche ottenere un permesso per circolare all'interno della Striscia di Gaza stessa, che l'occupante aveva quadrettato di sbarramenti militari e inferriate. In modo che ognuno rimanesse confinato nel suo pezzettino, come gli animali nelle loro gabbie allo zoo.
Annotazioni − Articolo pubblicato il 17/10/2005 su "la Repubblica". Traduzione di Fabio Galimberti.

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