Da Corriere della Sera del 19/10/2005

Nell’ospedale dei cinque delitti dove nessuno osa fare i nomi

di Marco Imarisio

LOCRI - «’Cca cumandu jeu», qua comando io. E giù un calcio alla porta del reparto di otorinolaringoiatria. Il signore, un uomo tozzo con i capelli tirati all’indietro, vuole entrare. Rifila un paio di manate al caposala, e si fa strada in corsia, cercando il letto della sua fidanzata.

All’ospedale di Locri gli orari di visita non esistono. E’ un grande edificio di quattro piani sulla statale che porta a Gioia Tauro. Inaugurato nell’ottobre del 1975, lascito di don Guido Candida, che lo fece costruire sui terreni di famiglia. Trent’anni, e li dimostra. Alcuni muri della facciata sul lungomare sono sbrecciati, mostrano segni di rammendi in cemento armato a vista. Atteso da tempo, l’appalto da 14 milioni di euro che gli inquirenti stanno esaminando nelle indagini sull’omicidio di Francesco Fortugno servirà per i lavori di ristrutturazione. E’ la seconda struttura ospedaliera della Calabria, ci lavorano in 1.200, dipendenti dall’Azienda sanitaria Magna Grecia che ne ha in tutto 1.795. Tanta gente, ma molte assunzioni sono virtuali, frutto del clientelismo. Nelle corsie c’è carenza di personale, i doppi turni continuati sono prassi comune. Si va e si viene, quando si vuole. Gli schiaffoni a medici e infermieri sono storia quotidiana, arrivano da clienti come il signore di questo pomeriggio. L’ospedale accoglie i degenti di tutta la Locride, capetti e bulli di paese fanno la voce grossa, si sentono padroni di casa. In media, i pazienti sono 300 su 363 posti letto disponibili. Non c’è servizio di portineria, gli ingressi sono 15, nessuno dei quali custodito. Al pianterreno le bacheche che dovrebbero ospitare estintori e pompe antincendio sono piene soltanto delle schegge dei vetri rotti. I risultati degli esami di laboratorio sono in un raccoglitore all’ingresso di una stanza deserta. Chiunque può darci un’occhiata. Nell’ultimo anno, sarà conseguenza della non elevatissima sorveglianza, sono spariti 15 computer e 130 telefoni, sono stati arrestati due uomini che si servivano indisturbati nella farmacia del nosocomio.

L’ospedale di Locri è un porto di mare, ma è anche qualcosa che aiuta a capire la realtà di questa terra, tra soprusi che vengono dal basso, da un’utenza a volte molto particolare, e appetiti politici che monopolizzano nomine che in realtà spetterebbero al direttore generale. Un caposala esasperato lo definisce «palestra di illegalità». Un sindacalista trasforma la palestra in «un regno», un viceprimario parla di «incolumità a rischio». L’unico timone è quello piuttosto ballerino della politica. A ogni refolo di vento, si cambia. Dal 1995 ad oggi si sono succeduti 12 direttori generali, tre dei quali, compreso l’attuale, sono commissari straordinari. A Fortugno, primario in aspettativa, questo ospedale dalla storia tormentata stava a cuore. Nei suoi interventi in Consiglio regionale c’è la denuncia costante dei soprusi nelle nomine, avocate dalla politica, primari e direttori sanitari promossi senza averne i titoli. E poi gli appalti e gli sprechi, quel che si perde tra i vari passaggi di mano. Il capitolato annuale di spesa per i farmaci è sontuoso, 15 milioni di euro, ma i medici lamentano la scarsità di medicinali.

Tra queste corsie un po’ disadorne, l’aria è pesante. Lo è sempre stata. Nel 1979 il medico Francesco Morgante venne sequestrato all’interno dell’ospedale. Nel 1988 il primario di chirurgia Gino Marino fu ammazzato all’ingresso. Aveva sbagliato ad operare la figlia di un latitante. Al neurochirurgo Domenico Pandolfo il 20 marzo 1993 spararono in testa nel bar al pianterreno. Anche lui aveva operato nel modo sbagliato la persona sbagliata. La notte di San Silvestro del 1995 venne ucciso un rappresentante farmaceutico, pochi anni fa è toccato alla moglie del pediatra, davanti al portone di casa. Non è facile lavorare nella sanità da queste parti. Si toccano persone e interessi che è meglio lasciar stare.

La facciata spoglia dell’ospedale riflette anche l’atmosfera interna. I lavoratori uniti si lamentano per la «latitanza dello Stato» e involontariamente citano un comunicato fatto nell’ottobre 1988, dopo la morte di Marino. Nulla è cambiato da allora. Per questo articolo sono stati sentiti due primari, due aiuto primari, tre sindacalisti, cinque infermieri. Tutti hanno chiesto di non vedere pubblicato il loro nome. «Meglio evitare - ha detto uno di loro -, cerchi di capire la situazione».

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