Da La Repubblica del 21/10/2005
Originale su http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/cronaca/vicepresid/loiero/loie...

IL COLLOQUIO. "Hanno ucciso Franco nel seggio per dare un significato inequivocabilmente politico all'assassinio"

Loiero: "In Calabria la mafia ucciderà ancora"

"Non posso abbandonare. Ho sulle spalle la responsabilità di trasformare la regione da ente erogatore di risorse in organo di indirizzo e controllo"

di Giuseppe D'Avanzo

CATANZARO - "Mi sono infilato in un gioco senza vie d'uscita. Potrei dimettermi, tornarmene a Roma, lasciar perdere con questa storia, no? Potrei concludere che, vabbe', dopo venti anni di Parlamento, l'idea di ritornare in Calabria con la speranza di favorirne il riscatto è stata un'idea bizzarra e sbagliata. Potrei concludere che questo desiderio ha innescato, in me, il riflesso allucinatorio che fosse davvero possibile raddrizzare il destino di questa terra dimenticata. Può essere davvero un'opzione, l'abbandono? Non lo è evidentemente. Non può esserlo. Ho vinto le elezioni con venti punti di differenza. Anche se volessi chiudere gli occhi, impaurirmi e cedere, non posso far finta di non avere sulle spalle la responsabilità che mi è stata affidata. Dunque, devo restare qui, quale che sia oggi la mia apprensione. Anche questa decisione, però, mi indica soltanto una strada da percorrere. Fare quel che ho detto ai calabresi di voler fare: trasformare la regione da ente erogatore di risorse in organo di indirizzo e di controllo. È la riforma che la 'ndrangheta non può accettare. A loro volta, anche gli assassini hanno una sola opzione. Se la mutazione genetica, chiamiamola così, del potere regionale andrà avanti, dovranno uccidere ancora. Ecco allora quel che penso: ammazzeranno ancora. Ci saranno altri morti".

Il governatore Agazio Loiero, nel buio dell'auto che lo riporta a Catanzaro da Locri, dove ha seppellito il suo amico Francesco Fortugno, ragiona di quel che è accaduto e accadrà a se stesso e alla Calabria, ora che i riflettori si vanno spegnendo. Parla piano e piano ragiona, con una lucida freddezza che lo tiene sempre tra disincanto (mai nichilista), realismo (mai riduttivo), una fiducia che non sa né vuole abbandonare il senso del tragico.

"Non so pensare ad altro che a questo aggettivo: buono. In questi giorni, mi hanno chiesto decine di volte, com'era Franco, com'era, raccontacelo... A me, sempre, è venuta alla mente la parola "buono". La più semplice. A qualcuno, forse, deve essere apparsa anche la più miserella. Credo che sia invece la parola giusta, corretta. Franco non aveva un potere concreto. E' una sciocchezza che sarebbe morto per le vicende o gli appalti della sanità. Non si occupava di appalti. Questo aspetto della politica lo vedeva estraneo. La forza politica di Franco non era nella capacità di gestione. Il suo potere era custodito soltanto dalle sue qualità umane: era capace di ascoltare, di consigliare, assistere, di essere equidistante ed equilibrato. Questo era Franco. La politica, quella carogna, cattiva, fatta di sangue e merda - per dirla come tanto tempo fa Formica - nemmeno la capiva, ammesso che la volesse capire. Ucciderlo è stata una barbarie perché Franco era di un'assoluta, candida innocenza. Ucciderlo per lanciare un messaggio a me è stato due volte barbaro... Un messaggio a me, certo... Non ho più dubbi, purtroppo. Più passano le ore e più mi convinco che la tragedia di Franco si è consumata come una definitiva e spietata minaccia contro il tentativo di rinnovamento e moralizzazione della regione. Lo hanno ucciso nel seggio per dare un significato inequivocabilmente politico all'assassinio. Hanno ucciso un politico della Margherita, il vicepresidente del Consiglio regionale, per indicare inequivocabilmente il luogo e il partito che provoca il problema"

"Se gli assassini avevano dei dubbi che non avessi capito i primi messaggi che mi hanno inviato, ora non ne avranno più. In luglio, era la fine di luglio, nella stessa ora mi inviarono tre proiettili in tre case diverse, in città, al mare, in campagna. Nella casa al mare, sistemarono il proiettile e una mia fotografia scaricata dal web addirittura sul tavolo in giardino. Quando ti accadono queste cose, sei sopraffatto da un infinito stupore e da un'autoindulgenza. Ti chiedi: perché a me? Che ho fatto di male? O che cosa non ho fatto o non ho detto per meritarmi questo? Poi ci ragioni, come è ovvio. Cerchi di circoscrivere il problema. Dopo la morte di Franco, sono sempre di più convinto che il problema, annunciato dallo spoil-system che ha sollevato settanta dirigenti, è nel trasferimento delle deleghe regionali alle province, ai comuni, alle comunità montane. E' un problema che ha non solo la 'ndrangheta, ma anche la criminalità minore, anche quel reticolo affaristico che è illegale senza essere propriamente mafioso o criminale".

"Purtroppo, non ho alternative a questa scelta. Lo so, avverto intorno a me resistenze e opposizioni. Può immaginarle, quelle note dissimulate che non sono avvertimenti o minacce, ma - insomma - inviti alla cautela, alla prudenza, alla moderazione. Capisco che cosa c'è sottotraccia quando un assessore mi dice: "Aga', ma questo dobbiamo farlo? Anche questo! Vedi che il capodipartimento non è proprio d'accordo...". Lo so che, anche tra i miei assessori, c'è chi non crede che, alla fine, la regione si libererà delle deleghe. Si sbagliano tutti. E' il nostro impegno di governo. Ci può scommettere anche qualche soldo che, entro il 31 dicembre di quest'anno, trasferirò le deleghe alle province e, entro il 3 giugno dell'anno prossimo, ai comuni e alla comunità montane. Non ho alternative. Governo un baraccone di 4300 dipendenti. Trecento lavorano e so più o meno che cosa fanno. Degli altri quattromila non so nulla. In alcuni casi non so nemmeno dove siano; in tutti i casi so che non c'è alcuna forma di controllo della loro attività, concedendo che un'attività ci sia per davvero".

"Questo è il mio problema di governo. Questo, naturalmente per altri versi, è il problema di governo della 'ndrangheta che, alla vigilia di interventi già finanziati (e molto) dal ministero dell'Economia e dall'Unione europea, si ritrova l'apparato scenico delle istituzioni, attori compresi, modificato in modo irrevocabile. La domanda, dopo la morte di Franco Fortugno, è sotto gli occhi di tutti: riuscirà a diventare un problema anche per il Paese, per chi lo governa? E' quello che ho tentato di spiegare a Beppe Pisanu quando in luglio mi spedirono i proiettili. Il ministro osservò che la faccenda era grave. Io gli dicevo: "E se fosse soltanto piccola mafia?". Lui mi disse: "Ti do la scorta perché, se anche fosse piccola 'ndrangheta, la grande non sarebbe estranea, per lo meno al livello di conoscenza".

"Io dico che la scorta, sempre più imponente, mi rassicura, rassicura soprattutto la mia famiglia, ma poi è proprio vero che, autorizzata la scorta a me, il caso sia chiuso? Per nulla, mi dico. Io stimo Pisanu, ma in questo caso non riesco a dare un senso alle sue parole. Salta fuori con numeretti che dovrebbero dimostrare che in Calabria lo Stato c'è come nel resto del Paese. Lo so anch'io che c'è la prefettura a Reggio come a Perugia, il guaio è che in Calabria c'è una 'ndrangheta che in Umbria non c'è. Una condizione che dovrebbe convincere il governo non a parlare della quantità di presenza statale, ma della sua qualità. Si sa che i mafiosi tollerano tutto, anche il carcere (non il 41bis) perché farsi il carcere dà loro prestigio e onore. Quel che non sopportano sono le confische patrimoniali. Le faranno? Non lo so. Le faranno soltanto se si deciderà che la Calabria è parte integrante del territorio nazionale, non è altra e diversa dall'Italia. Non so dire se riuscirò a convincerli. Posso dire che ci proverò. E' un fatto però che la devolution distruggerà quel che resta dell'unità del Paese e non posso perdonare i parlamentari caudatari, soprattutto del Sud, che hanno votato sì travolgendo non tanto l'articolo 117, ma l'articolo due della Costituzione dove affiora la parola "solidarietà" e il tre che difende il "principio di eguaglianza".

"Confesso che già ora, nell'ora più triste, non è stato facile avere in Calabria, per il funerale di Franco, i leader nazionali perché bisogna superare antiche e stratificate diffidenze. Mentre non ho dovuto sprecare tante parole con Massimo D'Alema e Francesco Rutelli - hanno subito capito quanto fosse necessaria fosse la loro presenza - ho dovuto superare qualche resistenza nel caso di Romano Prodi. So come va il mondo. Non me ne meraviglio. So che, quando è in ballo la Calabria, gli entusiasmi si raffreddano. Ricordo che a Roma - erano gli anni terribili dei sequestri - quando si accorgevano di avere di fronte un calabrese si irrigidivano, ammutolivano, guardavano da un'altra parte... Lo so, parli di un morto ammazzato in Calabria e ogni cosa finisce per essere avvolta da una nebulosa che rende indistinti i fatti, le storie, le responsabilità. Il "chissà che cosa c'è dietro" può schiacciare ogni cristallina esistenza nella macina del dubbio e del sospetto. Si preferisce girare al largo da quella oggettiva promiscuità che, nella mia terra, vede la "persona per bene" vivere accanto al bandito; la buona amministrazione nelle vicinanze di enti che saccheggiano le risorse pubbliche. Di questo maleficio credo che sia stato vittima anche Silvio Berlusconi. Che ha commesso in questi giorni indiscutibili errori. Perché ignorare così platealmente la tragedia di Franco Fortugno e il dramma regionale? Capisco che, in un primo momento, può aver funzionato negativamente il sospetto del "chissà che cosa c'è dietro", ma dopo che Ciampi - non mi stancherò mai di ringraziarlo - si precipita a Reggio Calabria, perché tentennare ancora? Berlusconi ha fatto una mossa sbagliata e non conveniente. Sbagliata perché era dovere del presidente del Consiglio essere qui accanto a noi. Non conveniente perché anche i calabresi votano e quest'indifferenza è stato uno schiaffo per tutti i calabresi, anche per chi vota Forza Italia. E infine pericolosa perché lancia agli assassini un messaggio rassicurante come se, in fondo, non ci si preoccupasse più di tanto degli assassinati o degli assassinandi perché la Calabria è, appunto, un mondo a parte".

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