Da La Stampa del 02/11/2005

In Palestina il suicidio viene insegnato a scuola e lodato dalla tv

L’Intifada degli innocenti

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME. Arafat istituzionalizzò il valore dei piccoli terroristi suicidi nel suo discorso dell’agosto 2002 ai bambini. La seconda intifada era al suo picco,e il rais lodò Farid Houra, uno «shahid» di 14 anni che prima di morire si era fatto da solo una specie di altarino di santificazione e poi era uscito di casa gettandosi in uno scontro, lasciando alla sua mamma una lettera. «Gli shahid costituiscono la forza fondamentale e vittoriosa del nostro popolo», disse. E nel gennaio 2003 rafforzò il messaggio: «Il bimbo che afferra un sasso, che fronteggia un tank, non è il miglior messaggio per il mondo quando quell’eroe diventa shahid?». Il bambino che lanciava il sasso, simbolo della Prima Intifada del 1987, si trasformò nella creatura carica di tritolo che veniva avviata verso la propria morte e quella di tanti innocenti.

Una figura costruita con un lavoro sociale e culturale intensivo. Il concerto di media e il sostegno religioso e scolastico ha portato quasi ogni bambino dell’Autonomia palestinese a vedersi come aspirante martire, a desiderare l’onore derivante dall’orribile mitizzazione del personaggio. Mohammed Al Dura, il 12enne ucciso il 1 ottobre 2000 in uno scontro di fuoco a un check point, diventò il simbolo dell’Intifada. Presso l’insediamento di Netzarim nella striscia di Gaza, quando ancora esisteva nel gennaio 2003, furono presi due bambini, di 8 e di 13 anni infiltrati per compiere un attacco terroristico. Un anno fa al check point Hawara vicino a Nablus fu fermata dai soldati una creatura di 14 anni, Hussam Abdo, che indossava la cintura di tritolo. Tutti l’hanno visto alla tv, terrorizzato mentre se la toglieva. Una settimana prima Abdallah Kouran, 12 anni, era stato trovato con una borsa carica di esplosivo. L’uso certificato di ragazzi ha toccato fra l’ottobre 2000 e il marzo 2004 il numero di 300. di cui 40 sotto i 17 anni. Meno noto ma costante è l’uso di queste creature per azioni di esplorazione, di trasporto di armi, di distrazione, con grave rischio della vita.

Una scelta che perverte il valore per cui il bambino è oggetto di protezione di tutta la comunità rendendolo strumento di guerra. La tv palestinese dal 2000 ha mandato in onda tanti clip con drammatiche canzoni e immagini strazianti di bambini eroi che lasciano mamma, casa e giocattoli e vanno morire. I soldati vi sono sempre rappresentati come mostri; le madri come donne piangenti ma fiere e felici della scelta dei figli. Shafik Massalha, psicologo arabo, dice: «Il mondo circostante non suggerisce loro che essi sono nati per vivere e non per morire».

Durante un talk show il presentatore ha chiesto a un gruppo di bambini se il martirio era una bella cosa. Risposta: «Cosa può esser meglio di andare in Paradiso?».Una piccola diceva: «Ogni 12enne dice “Oh signore, vorrei diventare martire”».

I libri di testi per tutte le età lodano la morte dei bambini: un verso della poesia «Shahid» nei testi del quinto, sesto, settimo e dodicesimo grado recita «vedo la mia morte e mi affretto verso di lei». In memoria dello shahid del nono grado, Wajdi al Hattab, un giornale riportava le parole del suo maestro: «I suoi compagni hanno giurato di continuare sulla sua strada». E nell’esperienza della cronista, mentre certamente da parte dell’Autonomia Palestinese di Abu Mazen la propaganda è un poco diminuita, ogni ragazzo cui si faccia la domanda se vuole essere shahid, risponde con un’entusiasta adesione.

L’esaltazione di questo modello nel mondo arabo è evidente. Ma essa fu fatta anche dal regime khomeinista nella guerra contro Saddam Hussein, quando schiere di shahid marciarono contro il nemico con una chiave del paradiso di plastica attaccata al collo.

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