Da La Repubblica del 29/10/2005

La minaccia khomeinista

di Guido Rampoldi

Non si può dire che il neopresidente iraniano Mahmud Ahmadinejad abbia un'idea esatta del mondo. Come il suo mentore, la Guida suprema Kamenei, non capisce l'inglese, non guarda le tv satellitari, non viaggia all'estero e tantomeno nel debosciato Occidente. Però sarebbe pericoloso attribuire le sue ultime minacce («Israele dovrà essere cancellata dalle mappe») all'inesperienza del neofita o all'autismo ideologico del rivoluzionario. Quel suo tono brutale e imperioso è il tono d'un regime totalitario che non teme più di sfidare gli avversari perché ne conosce la debolezza.

È la lingua del vincitore: e poiché Teheran ha motivo per considerarsi tale, faremmo bene a preoccuparci. Beninteso, la rivoluzione khomeinista rimane grossomodo dov'era tre anni fa, in coma terminale. Ma nel frattempo l'invasione dell'Iraq ha rianimato quel regime decotto. L'ha rafforzato con i proventi del petrolio; e soprattutto gli ha permesso di dislocare in Iraq un tale armamentario di strumenti politici e militari che oggi nessuno, neppure Washington, può prescindere dalla volontà di Teheran. Inoltre il "processo democratico" in Iraq, assai lodato dalla stampa occidentale, è perfettamente funzionale ai progetti iraniani. Questo dettaglio in genere viene taciuto dalla "Coalizione dei volenterosi", adesso impegnata a celebrare la vittoria del "sì" nel referendum iracheno con la formula dell'ottimismo altisonante: svolta storica. Nessun Paese è così generoso di svolte storiche come l'Iraq: di media una ogni nove mesi. Ma poiché nel frattempo tutto peggiora, la frequenza di queste "svolte storiche" forse non racconta d'un Paese che brucia le tappe della resurrezione, quanto d'una Coalizione prigioniera delle sue bugie. Infatti non è irrilevante, e dovrebbe far riflettere, che le lodi più convinte al voto iracheno siano venute dagli ayatollah di Teheran.

Entusiasti. Referendum benedetto dal Cielo, secondo la Guida suprema Kamenei.

«La promessa d'un futuro di pace e stabilità» per il ministro degli Esteri Mottaki. Al vertice iraniano certo non è piaciuto che dalla bozza della Costituzione resa pubblica in agosto sia sparito l'articolo che avrebbe vincolato la permanenza delle basi aeree americane in Iraq all'assenso dei due terzi del parlamento iracheno. Ma in cambio Washington ha rinunciato alle obiezioni sugli articoli che autorizzano le nove province sciite a unificarsi in una regione con proprie milizie, leggi e diritti petroliferi sui giacimenti non ancora sfruttati. Insomma a formare uno staterello sciita, verosimilmente governato dal partito più votato in Iraq, quello Sciri khomeinista che Teheran ha sapientemente allevato nel ventennio dell'esilio. Dunque è con diritto che l'Iran si considera, confermano le corrispondenze da Teheran, l'unico vincitore della guerra lanciata da Bush. Per la prima volta è entrato nella penisola arabica; e ora punta senza nasconderlo all'obiettivo successivo, cacciare gli americani dall'Iraq, obbligandoli a rinunciare alle loro grandi basi aeree.

È probabile che nella percezione della propria forza il regime iraniano metta anche quel delirio d'onnipotenza che è tipico dei totalitarismi. Ma se tutto si riducesse ad una sindrome non si capirebbe perché la settimana scorsa il Segretario di Stato Condoleezza Rice abbia chiesto a Teheran, fino a ieri il capofila dell'Asse del male, contatti diretti per discutere il viavai di armi e armigeri sulla frontiera con l'Iraq. Ma a quell'improvvisa dimostrazione di realismo, e della consapevolezza che i rapporti di forza non sono favorevoli agli Stati Uniti, il governo iraniano ha risposto con un rifiuto altezzoso.

Ormai è improbabile che la diplomazia occidentale possa ancora placare le smodate ambizioni iraniane, dal nucleare ai progetti egemonici sul sud dell'Iraq (ma se una possibilità esiste andrebbe esplorata fino in fondo, anche con una conferenza regionale sulla mischia irachena). E le alternative sono quasi nulle. Di dubbia utilità le sanzioni; le soluzioni militari, come raid aerei limitati contro obiettivi iraniani, aiuterebbero Bush a tornare il war president che piacque all'elettorato statunitense; ma aiuterebbero assai più gli ayatollah, regalando ad essi il patriottismo iraniano. E soprattutto esporrebbero gli americani ad una furibonda rappresaglia in Iraq.

Dunque allo stato nessuno sa come neutralizzare il regime khomeinista, tanto più pericoloso e aggressivo perché sta agglutinando il nazionalismo persiano. Ma chi in Occidente volesse seriamente tentare qualcosa, dovrebbe innanzitutto accettare che le cose non vanno come in genere racconta un'informazione dall'inesauribile disponibilità a sedare e a rassicurare.

Possiamo chiamare "Operazione successo" la missione italiana in Iraq, come Berlusconi e la stampa conforme: ma questo non cancellerà il fatto che il governatore di Nassiriya, nominato dall'unico organo regolarmente eletto in quella regione, sia per giudizio quasi unanime una notoria spia iraniana.

Possiamo commuoverci allo spettacolo degli iracheni in fila davanti ai seggi: ma non dobbiamo tacere che nel referendum d'ottobre ha votato anche la maggior parte della guerriglia indigena (hanno dato indicazioni in questo senso i gruppi denominati Esercito islamico, Fronte islamico, Esercito dei mujahiddin, Movimento di resistenza islamico, Esercito di al-Mahdi).

Possiamo sperare che chi oggi maneggia sia le urne sia le bombe domani rinuncerà alle seconde. Ma dovremmo tenere a mente che un'elezione non salva necessariamente una società dalla guerra civile, e anzi può accelerarla: come l'ex Jugoslavia insegnò.

Soprattutto ci dovrebbe essere chiaro che gli occidentali stanno perdendo l'Iraq, ammesso che non l'abbiamo già perso, e non dispongono d'una strategia adeguata ad evitare l'implosione. Le incertezze americane sono sempre più evidenti, con effetti paradossali: per esempio la singolare libertà d'azione di cui godono i 1.500 miliziani del PKK curdo riparati nel nord dell'Iraq.

Secondo Ankara, i loro commandos sconfinano ormai con una frequenza giornaliera, ammazzano soldati turchi, tornano in Iraq sotto l'ala protettrice della "Coalizione dei volenterosi" e dei distratti.

Washington promette che risolverà il problema: ma non subito. Curioso modo di condurre la "guerra al terrorismo". Resta poi imprecisato quanto sia davvero salda la volontà americana di mantenere un Iraq unitario, e la praticabilità residua di questo progetto. Secondo una tesi in ascesa a Washington, l'Iraq è già defunto, come scrive in un saggio che fa discutere un ex ambasciatore americano oggi legato ai curdi, Peter Galbraith; e l'esercito iracheno una finzione: la metà dei militari sarebbero fantasmi inventati dai comandanti per incassare quelle paghe. Per cui converrebbe tripartire il Paese: i massacri che ne seguirebbero, conclude Galbraith con un flemma singolare, sarebbero un prezzo comunque minore di quanto costerebbe mantenere forzosamente in vita l'Iraq.

Però anche Teheran avrebbe motivi per temere l'implosione del vicino in una guerra civile di imprevedibile durata. Forse il miglior argomento a disposizione di Washington per convincere l'Iran a ragionare è proprio l'evidenza che l'invasione dell'Iraq è stata un disastro di portata colossale.

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