Da La Repubblica del 29/10/2005

Nella guerra tra bande all'interno dell'Amministrazione le ragioni di uno scandalo che si poteva evitare

L'arroganza dei guerrieri ha travolto la Casa Bianca

Il vice presidente teme adesso cosa potrebbe rivelare Libby per uno sconto di pena
Doveva essere un segnale per tutti quelli che avevano osteggiato la "campagna Iraq"
Tutto cominciò per il desiderio di punire chi aveva smontato le false accuse a Saddam

di Vittorio Zucconi

Washington - Si sentivano sicuri, invulnerabili, onnipotenti, i cavalieri della guerra preventiva e i loro scudieri.

Quando cominciarono nel 2003 le indagini sulla "fuga" del nome di un funzionario della Cia coperto dal segreto, risero, dissero che era un "nadagate", un "nothingburger", una polpetta di aria fritta. Loro erano i neocon, i liberatori del mondo, i cavalieri della giustizia, i "Vulcans" come erano stato soprannominati ricordando i guerrieri invincibili di Star Trek e avrebbero distrutto chiunque avesse osato mettersi sulla loro strada.

Oggi, il loro uomo di punta dentro la Casa Bianca, il protetto di Dick Cheney e il discepolo prediletto di Paul Wolfowitz, Lewis Scooter Libby contempla cinque incriminazioni e 30 anni di possibile galera e si è dimesso. Molti altri, compreso il vice Presidente Cheney, dormono notti inquiete pensando a che cosa potrebbe raccontare e patteggiare per risparmiarsi il carcere. Il "nadagate", lo scandalo fatto di nulla come di nulla erano fatti il Watergate, l'Irangate, il Sexgate, era, come i suoi predecessori, un polpetta avvelenata dal solito tossico, dall'arroganza del potere.

Il crepuscolo del leader dei "Vulcans" comincia un sabato 6 luglio 2003, con un articoletto di 1.400 parole. Quando la copia del New York Times piombò sulle scrivanie della Casa Bianca quel sabato, le "gates", o cancelli dell'inferno giudiziario che condusse la politica americana negli incubi del Watergate, dell'Irangate, del Monicagate, si riaprirono, per inghiottire un'altra amministrazione nel fossato della propria arroganza e della propria paura. Nella penultima pagina del quotidiano più venerato e detestato d'America, tra editoriali e opinioni, un ambasciatore senza ambasciata, un nessuno nel teatro del potere americano, Joseph C. Wilson, scriveva, sotto il titolo «Che cosa non ho trovato in Africa» tra le altre questa frase: «Non ho altra scelta che concludere (dopo la mia missione in Niger) che parte dell'intelligence sul programma nucleare iracheno è stata distorta per esagerare la minaccia posta dall'Iraq». Per il pubblico del lettori, quella fu una mattina di mezza estate come mille altre. Per la Casa Bianca, per il riferimento e protettore dei neocon dentro la Presidenza, per Dick Cheney e per il suo braccio destro, Lewis Libby detto "scooter" perché da bambino zampettava ovunque, fu una sirena d'allarme che lacerò il senso di sicurezza e di "hybris", di superbia ideologica che li aveva avvolti e accecati.

L'occupazione dell'Iraq per impedire che «il fumo della sua pistola assumesse la forma di un fungo atomico» come per mesi ci avevano ripetuto il Presidente e i suoi portavoce, era arrivata al quinto mese e a 204 morti americani più legioni sconosciute di civili, soldati e guerriglieri iracheni.

L'opinione pubblica americana, i media erano ancora psicologicamente "embedded", incastrati nel bozzolo di patriottismo costruito dallo shock dell'11 settembre e soltanto i primi dubbi su quello spaventoso arsenale immaginario increspavano il sostanziale consenso attorno a Bush. Ma Cheney, il suo "Scooter" che ora rischia 30 anni per cinque reati di falsa testimonianza e ostruzione di giustizia, il resto dei "Vulcans" sapevano quello che allora soltanto si sospettava: che l'intero dossier Saddam era tessuto di esagerazioni, montature, conclusioni e minacce costruite, come Paul Wolfowitz si era lasciato sfuggire in un'intervista, «per ragioni di consenso burocratico», per trovare qualcosa che convincesse i recalcitranti alla guerra, come Colin Powell al Dipartimento di Stato e George Tenet (un residuato clintoniano) alla Cia.

La risposta dei guerrieri fu dunque proporzionale al terrore che quella ammissione dell'ambasciatore aveva scatenato in loro, che quelle poche parole fossero il filo di verità che avrebbe potuto dipanare l'intera maglia di bugie e di esagerazioni. Sappiamo ora, grazie al bravissimo, severo e indipendente inquisitore Pat Fitzgerald, che al massimo livello di governo, nell'ufficio del vicepresidente, si decise di lanciare un'altra guerra preventiva contro il nuovo nemico, contro quel Wilson e soprattutto contro la moglie, Valerie Plame, funzionaria della Cia, agente "Noc" (senza copertura ufficiale) comunque responsabile di un delicatissimo incarico, che aveva inviato il marito in Niger a smontare la patacca della "polvere gialla", l'uranio cercato da Saddam.

E qui sta la chiave per capire questo nuovo "gate", questo nuovo pasticcio che sta scuotendo la presa della banda dei falchi sul timone dell'America. Il fatto che quell'acquisto di uranio non fosse mai avvenuto, che il documento italiano fosse una vistosa patacca, che Saddam Hussein non possedesse, pur desiderandole ardentemente, armi atomiche, era stato ammesso addirittura dalla stessa Casa Bianca, quando la menzione della "polvere gialla" fatta nel discorso sullo Stato dell'Unione, sei mesi prima la rivelazione di Wilson, era stata ritirata e le fonti ufficiali avevano affermato che «le 16 parole» pronunciate da Bush riprendendo un informazione dei servizi britannici «non avrebbero dovuto essere presenti». Perché dunque Cheney, il "Darth Vader" della guerra all'Iraq, Libby, il suo uomo di mano, e forse altri, lanciano una campagna per demolire l'ambasciatore e stroncare la moglie funzionario della Cia, quando la loro "rivelazione" era ormai pacifica? Perché, esattamente come 30 anni prima sotto il regno di Nixon, era arrivato il tempo di condurre una resa dei conti definitiva tra le bande e le agenzie in guerra tra loro a Washington. Nel blando scoop del New York Times, i "Vulcans" videro il segnale di una possibile guerra aperta della Cia, sempre contraria alla guerra e recalcitrante nel fornire le "prove" che Cheney e Wolfowitz chiedevano per "vendere" l'invasione dell'Iraq. Videro il rischio di un ammutinamento dei dissidenti al Dipartimento di Stato e alla Agenzia contro il Pentagono e la Casa Bianca. Un segnale mafioso, si direbbe in Italia, la gambizzazione di una funzionaria minore, la Plame, per ammonire tutti e che la Cia accolse denunciando penalmente «gli ignoti» che avevano fatto lo «outing» della sua funzionaria. Guerra per bande, dunque e, dice oggi il dispositivo di incriminazione, fu addirittura Cheney, il burattinaio di questa Presidenza, il referente dei neocon a riferire al suo uomo Libby il nome e l'incarico della moglie dell'ambasciatore, che poi passò ai reporters «confidenzialmente». La legge degli scandali politici americani è scattata implacabile, grazie alla forza di una magistratura che finora è riuscita a mantenersi indipendente dal potere politico di turno. Non è quello che fai, ma quello che fai per nascondere quello che hai fatto che spalanca le «gates», i cancelli. E rivela l'esistenza della più micidiale arma di autodistruzione di massa: la coda di paglia.

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