Da La Repubblica del 30/10/2005

Si è pagato gli studi ad Harvard lavorando nel palazzo dove il padre faceva il custode, la sua carriera inattaccabile e senza militanze politiche

La sfida di Fitzgerald l'Incorruttibile

Così un giudice irlandese figlio del "sogno americano" fa tremare Bush

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON - La leggenda cristiana racconta che il suo omonimo, Saint Patrick, liberò l'Irlanda dalle serpi velenose. Un po' di quel fiero sangue missionario e bonificatore deve essere rimasto in questo inquisitore irlandese chiamato Patrick, esploso sul palcoscenico della storia, con il volto giovane ma un poco pesto, proprio come i pugili irlandesi incassatori, come un missionario che ha osato mettere il dito nel nido di vipere della Casa Bianca.

Ed è riuscito a pestare la coda a tutte le serpi e tagliare la testa al più velenoso e importante dei guerrieri con la lingua biforcuta, Lewis Scooter Libby, dimissionario e in attesa di processo con 30 anni di possibile condanna.

Certamente, sarebbe difficile essere più irlandese di uno che si chiama Patrick di nome e Fitzgerald di cognome, una sequenza alla quale manca solo un Kennedy per far tremare ogni buon conservatore nel ricordo di spettri e incubi. Essere più immigrato, più figlio dell'«american dream» di questo ragazzo che nacque e crebbe nelle «mean streets», nelle ruvide strade di Brooklyn, che studiò dai maestri della dialettica sottile, i Gesuiti e poi si dovette mantenere agli studi di legge a Harvard lavorando come «uomo di mano» nello stesso palazzo della Upper East di Manhattan dove il padre faceva il custode, è impossibile.

Ma il prosecutor, il giudice istruttore che da venerdì ha scosso la Casa Bianca come 2005 cittadini americani in uniforme uccisi in Iraq e 15mila feriti erano riusciti a fare, ha compiuto un miracolo che neppure i suoi celebri predecessori nella bonifica del potere, i prosecutors di Nixon, di Reagan e di Clinton, riuscirono a fare: restare silenzioso e a tenuta stagna di indiscrezioni per due anni. In una capitale colabrodo come Washington, dove «il suono corre più veloce della luce», diceva il vecchio Reagan, e le fughe di notizie sono la santa regola, neppure un sussurro è mai uscito fino a quando lui, il cacciatore di serpi, ha dato l'annuncio delle cinque incriminazione contro il capo gabinetto del vice presidente e delle indagini che continuano sul «cardinale della Casa Bianca», Karl Rove.

Neppure i pretoriani della presidenza Bush che ora si arrampicano sui cavilli per salvarsi la faccia, sono riusciti quindi ad accusarlo di cercare pubblicità, di usare i media come cassa di risonanza o di essere «politicizzato» che è la prima e la più scontata delle accuse che i politici nei guai sempre lanciano ai magistrati che li incriminano, per mobilitare i propri adepti. Lo hanno esaminato e vivisezionato come una rana in laboratorio, sperando di trovare in lui i sintomi di quel settarismo fanatico che motivò il campione della destra giudiziaria, il procuratore Starr, a frugare sotto il letto e le scrivania di Clinton per scoprire che tipo di mutande indossasse la signorina Lewinski e fingere di scandalizzarsi non per il sesso, ma perché aveva osato mentire al giudice, esattamente l'accusa che ora si ritorce contro la Casa Bianca di Bush.

Fitzgerald è iscritto alle liste elettorali, ma senza indicazione di partito. Nella New York dove aveva cominciato come procuratore aveva mandato in carcere il capo della famiglia mafiosa Gambino, la più importante, incriminato e fatto condannare per il primo attentato alle Torri Gemelle, quello del ‘93, lo sceicco cieco, Omar Abdel Rahman, il primo agente dell'allora sconosciuta Al Qaeda negli Stati Uniti. Fu il primo, in quegli stessi anni, a fare il nome di un certo Osama Bin Laden come capofila del nascente terrorismo islamico e a incriminarlo in absentia. Neppure l'etichetta del «complice del terrorismo» o del «pacifista utile idiota», con lui può funzionare.

A Chicago, dove era stato trasferito e promosso a Us attorney, cioè procuratore per i massimi reati federali, aveva portato sotto processo sia la macchina elettorale del sindaco democratico Daley, per corruzione e nepotismo, sia il governatore repubblicano Ryan, in un esemplare esibizione di par condicio giudiziaria. E quando il ministro della Giustizia della prima amministrazione Bush, John Ashcroft, lo aveva scelto per condurre l'inchiesta sulla fuga di notizie organizzata per coprire le panzane dell'uranio nigerino, Ron Safer, il decano degli avvocati penalisti di Chicago che lo aveva avuto come avversario in vari processi, commentò: «Dio salvi il Re e anche la Regina, perché quanto Patrick parte, non lo ferma nessuno».

Purtroppo per i pretoriani agitati della Casa Bianca, Scooter Libby, Fitzgerald «è un uomo senza un'agenda politica», dice il suo ex diretto superiore, Mary Jo White, capo dell'ufficio inquirenti di Manhattan. Non ci sono angoli, maniglie ideologiche, sospetti di partigianeria ai quali aggrapparsi secondo la tecnica della denigrazione personale, in un questa sorta di Javert irlandese americano che ha il difetto terrificante di guardare soltanto ai fatti e di non farsi intimidire da nessuno. Non va ai cocktail parties. Rifugge dai salotti di vipere che brulicano a Washington. Non teme i mammasantissima della Casa Bianca, i ricatti del falso patriottismo bellicista che dopo l'11 settembre avevano imbavagliato i critici e neppure le grandi firme dei giornali, che lui ha chiuso in galera per 85 giorni, come Judith Miller del New York Times, la giornalista che passò per buone tutte le disinformazioni che proprio Libby le passava sull'arsenale immaginario di Saddam Hussein. Ora, nel nido della Casa Bianca, si teme che «cada la seconda scarpa», sulla testa di un altro serpe, perché l'indagine continua e il nuovo Saint Patrick sembra deciso a convertire l'isola del potere bushiano al comandamento che a questa amministrazione di devoti teo conservatori resta più ostico. «Non testimoniare il falso».

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