Da La Repubblica del 31/10/2005

I nostri 007 al fronte, ecco i dettagli

Guerra in Iraq: così l'Italia ha aiutato gli Usa

di Carlo Bonini, Giuseppe D'Avanzo

ROMA - È UN ALTO dirigente dell'intelligence politico-militare. È un uomo del Sismi. Taglia lo stretto corridoio del bar dell'hotel Eden di via Ludovisi con lentezza. Appare rilassato. S'attarda a guardare, attraverso le larghe finestre, il cielo e il dolce profilo di Roma nel sole di aprile (è il 22 aprile del 2003). È elegante nella sua grisaglia di "funzionario della Presidenza del Consiglio". Sceglie un tavolo al centro della terrazza. Il cameriere lo raggiunge con sollecitudine. L'uomo ordina una spremuta d'arancia e un caffè doppio. L'intervento angloamericano in Iraq è cominciato nella notte tra il 19 e il 20 marzo, trentatré giorni prima.

Oggi che Silvio Berlusconi svela di non aver mai appoggiato l'intervento militare in Iraq, è utile raccontare come il nostro Paese, al contrario di quanto dice il premier, è stato coinvolto sul campo nelle operazioni di guerra.

Bisogna dire con quali accordi; spiegare quali sono stati i piani d'azione, pianificati da chi e con chi.

«Per noi italiani – racconta l'alto dirigente del Sismi a Repubblica – la guerra in Iraq è cominciata prima di Natale del 2002…. ». Sorride. È allegro e c'è una luce di eccitazione nei suoi occhi e sembra non avere voglia, per una volta, di soffocare quella personale soddisfazione dietro una maschera gelida. Cosa singolare. Mai visto soddisfatto, quell'uomo. Sempre consapevole «che si può fare di più e meglio». Troppo equilibrato per vantarsi dei successi. Troppo testardo per lasciarsi avvilire dalle sconfitte. Dice: «È stato un fatto nuovo, è stata una rivoluzione per la nostra intelligence. Mai, nella sua storia, il Sismi è stato coinvolto con tanto rilievo in un'operazione militare sul terreno e, con un ruolo così maiuscolo in una campagna di guerra. Il governo? Certo, autorizzati dal governo, ci manca altro… È una guerra mica un'esercitazione… La ventina di uomini che abbiamo spedito in Iraq ha rischiato la pelle…». S'azzitta. Arriva il caffè. Lo beve lentamente socchiudendo di piacere gli occhi. L'uomo continua: «Sono stati impegnati una ventina di uomini di tre direzioni del Sismi: Intelligence militare, Operazioni, Antiterrorismo. Si sono divisi in unità nelle aree di Kirkuk, Bagdad, Bassora, protetti da coperture molto fantasiose. Ogni unità ignorava l'identità e il lavoro affidato alle altre. Ognuna ha avuto l'incarico di muoversi in un fazzoletto di territorio e lavorare con un certo numero di "fonti" già individuate e "preparate". Gli obiettivi erano sostanzialmente due: mappare le difese irachene e misurare la voglia di combattere dei quadri alti delle Forze Armate. Se la guerra che si combatte laggiù non è così cruenta, lo si deve a questo lavoro che naturalmente non abbiamo sbrigato da soli. Se abbiamo vinto prima che venisse sparato un solo colpo, lo si deve al successo dell'infiltrazione e di ciò che ne abbiamo ricavato».

* * *

La storia dell'intervento militare italiano in Iraq comincia quando il resident scholar dell'American Enterprise Institute (Aie) Michael Ledeen, sponsorizzato dal ministro della Difesa Antonio Martino, sbarca a Roma con uomini del Pentagono per incontrare un pugno di "fuorusciti iraniani". L'incontro è organizzato dal Sismi. In un appartamento "coperto" del servizio nei pressi di Piazza di Spagna (secondo altre fonti, in una saletta riservata dell'hotel Parco dei Principi). Intorno a un grande tavolo, coperto da mappe dell'Iraq, dell'Iran e della Siria ci sono più o meno venticinque uomini. Quelli che contano davvero sono Lawrence Franklin e Harold Rhode dell'Office of Special Plans del Pentagono, Michael Ledeen (Aie), un capocentro del Sismi accompagnato dal suo assistente («un uomo stempiato tra i 46 e i 48 anni; l'altro più giovane, sui 38, con un apparecchio ai denti»), misteriosi iraniani. Pollari conferma a Repubblica il meeting. «Quando il ministro mi chiese di provvedere a quell'incontro, mi incuriosii. In fondo, è il mio mestiere e io non sono nato ieri. È vero, c'erano anche i miei uomini alla riunione. Volevo sapere che cosa bolliva in pentola. … È vero, c'erano carte dell'Iraq e dell'Iran sul tavolo e quelli lì tanto fuorusciti iraniani non dovevano essere. Andavano e venivano da Teheran con il loro passaporto e senza alcuna difficoltà manco fossero trasparenti agli occhi dei pasdaran…».

Dunque, gli iraniani non sono fuorusciti. Non sono oppositori del regime degli ayatollah. Sono uomini del regime, inviati di Teheran. Se si chiede a Washington che diavolo ci fanno, alla vigilia della guerra, gli iraniani a Roma, gomito a gomito con gente del Pentagono, si può raccogliere qualche buona informazione. Per tirare qualche filo del garbuglio, bisogna ascoltare una fonte dell'intelligence americana che chiede di restare anonima. Dice: «In Italia avete sempre sottovalutato il lavoro di intossicazione di Ahmed Chalabi, il leader dell'Iraqi National Congress (Inc). Avete la tendenza a omettere questo capitolo della vostra storia perché pensate che Ahmed sia stato soltanto affare nostro. Non è così: è stato anche affare vostro, più di quanto abbiate finora immaginato o saputo».

Bisogna dire chi è Ahmed Chalabi. Beniamino dei neo-con, Chalabi è incaricato dai "falchi" del Pentagono di veicolare alle intelligence europee notizie sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa ottenute da presunti scienziati che hanno disertato il regime. A essere incaricato della raccolta di notizie e della costruzione delle "leggende", è il responsabile dell'intelligence di Chalabi, Aras Habib Karim. Aras è un uomo chiave. Coordina l'Intelligence Collection Programme. Gestisce e confeziona la "produzione" dei dissidenti. È un curdo sciita, poco meno che cinquantenne, furbissimo, cattivissimo, un mago del doppiogioco e della falsificazione dei documenti. Con una particolarità: da sempre la Cia lo considera «un agente iraniano». Il secondo uomo chiave è un americano, Francis Brooke. Il falso dossier italiano sull'uranio nigerino arriva anche, non si sa davvero il perché, nelle sue mani. Brooke tiene i collegamenti con Condoleezza Rice e con Paul Wolfowitz e tra Pentagono e l'Iraqi National Congress. È ascoltatissimo, anche più di Chalabi, a Teheran.

Prosegue la Fonte dell'intelligence Usa: «Ahmed Chalabi e i suoi uomini migliori – Karim, Brooke – si muovono in squadra con inviati del Pentagono e dell'American Enterprise Institute. Un esempio per capire meglio. I tre uomini che, nel 2004, si alternano a Bagdad al fianco di Chalabi come "ufficiali di collegamento" con il Pentagono sono Michael Rubin, presidente dell'American Enterprise Institute; Harold Rhode, assistente all'Office of Special Plans di Douglas Feith e consigliere "per gli affari islamici" di Paul Wolfowitz. Avviene così anche in Italia alla vigilia della guerra. Le riunioni, che si convocano a Roma, raccolgono i rappresentanti di tutta la squadra: Michael A. Ledeen dell'American Enterprise Institute; Larry Franklin e Harold Rhode dell'Office of Special Plans; i colonnelli dell'Iraqi National Congress; in più gli iracheni sciiti del Consiglio Supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciri) e naturalmente i "guardiani della rivoluzione". È questo il parterre di Roma. Interessante, no?». Interessante.

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Scopriamo che è sciita la carta vincente che l'Iran gioca nel conflitto in via di pianificazione dopo l'attacco alle Torri dell'11 settembre. Teheran decide di spendersi «per una ragionevole garanzia degli interessi strategici iraniani nell'area». Gli americani, pragmatici, devono tener conto dell'influenza iraniana sulla comunità sciita (il 65 per cento degli iracheni). Gli ayatollah hanno un "interesse nazionale" nel cambio di regime a Bagdad. Un Iraq liberato dal potere dei sunniti può regalare a Teheran una maggiore influenza politica e chances di governo agli sciiti del Consiglio supremo della rivoluzione dell'ayatollah Muhammad Baqir al-Hakim, sostenuto ospitato e protetto in Iran, con il suo braccio militare, le Brigate Sadr (da 7 a 15 mila uomini). Non meraviglia così che la squadra di Chalabi (siano o non siano, i suoi colonnelli, anche agenti iraniani), sia accolta a Teheran con la dignità e l'attenzione che si riserva a una delegazione diplomatica. È questo il contesto politico che consente allo Sciri di collaborare con l'amministrazione Bush alla fabbricazione dei pretesti della guerra.

Aras Habib Karim organizza, con l'Intelligence Collection Programme, le rivelazioni dei disertori iracheni. Lo Sciri offre al Pentagono una conferma alle loro rivelazioni apparentemente "indipendente", in realtà concordata con il gruppo di Chalabi sotto la supervisione dei servizi segreti di Teheran. Se un transfuga, "lavorato" a Londra dall'Inc, dichiara che Saddam Hussein «sta cercando di sviluppare un nuovo tipo di armi chimiche», il leader militare delle Brigate Sadr, Abdalaziz al-Hakim, in visita a Washington, consegna ai funzionari americani «un documento dell'intelligence iraniana che dimostra come il dittatore abbia autorizzato i comandanti regionali a usare armi chimiche e biologiche contro ogni resistenza sciita che possa esserci in caso di attacco americano». Abbiamo imparato a conoscere il modulo della disinformazione. Appaiono però protagonisti che non sapevamo avessero calcato le scene italiane alla vigilia della guerra. Li vediamo l'uno accanto all'altro, ora. Partecipano al meeting di Roma. Programmazione di Michael A. Ledeen per conto dell'Office of Special Plans del Pentagono. Sponsorizzazione politica (a sentire Pollari) del ministro della Difesa, Antonio Martino. Organizzazione tecnica del Sismi.

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Quante frottole su questa riunione. È servita, è stato detto in questi anni, «per salvare vite umane in Afghanistan». Poi, «per programmare con esuli iraniani il sostegno alle masse popolari iraniane» di cui si vagheggia un risorgimento capace di rovesciare il regime degli ayatollah. Si è detto che è stata utile a «individuare gli interessi dell'Iran in Afghanistan». Infine, come si legge in un "Appunto" del Sismi, per «ottenere informazioni su presunti legami con Al-Qa'ida e sul ruolo giocato da alcuni governi mediorientali nei rapporti con il terrorismo internazionale». In ognuno di questi quadri intercambiabili ha un ruolo di primattore un tale chiamato Manucher Ghorbanifar. Iraniano di nascita, residente – per quel che se ne sa – tra Parigi e Ginevra, Ghorbanifar non ha una buona reputazione. Per alcuni, è un trafficante di armi. Per altri, un falsario. Per il ramo civile della nostra intelligence, un agente segreto di Teheran. Per un'agenzia dell'intelligence americana, un agente del Mossad. Per altri, un furbissimo cacciaballe. Per altri ancora, tutte queste cose insieme. Al contrario l'iraniano è un personaggio minore, a quanto pare. È la lepre che gli organizzatori del meeting gettano tra i piedi dei ficcanaso per condurli lontano dal luogo del delitto, e soprattutto alla larga dal movente.

Racconta la fonte Usa a Repubblica: «Manucher Ghorbanifar offre soltanto una fonte londinese in grado, pare, di indicare a Bagdad dove trovare l'uranio arricchito stoccato da Saddam alla vigilia della guerra. Ledeen infioretta poi la storia riferendo che il "contatto" di Ghorbanifar ha saputo anche che l'Iran sta cercando di acquistare questo uranio e che le radiazioni emesse dal materiale radioattivo in giacenza hanno contaminato alcuni tecnici iracheni di cui conosce l'identità. Dopo un batti e ribatti tra Cia e Pentagono, la fonte londinese di Ghorbanifar viene condotta, a spese dell'Agenzia, a Bagdad per collaborare all'individuazione del luogo in cui si trova l'uranio. L'uomo, dopo aver portato a passeggio per qualche giorno gli uomini di Langley, chiede 50 mila dollari per rinfrescare la memoria di persone che, a Bagdad, possono aiutarlo nelle ricerche. Ovviamente, quel buffone viene congedato con un calcio nel culo... ».

Dunque, lasciar perdere Manucher Ghorbanifar.

Il meeting di Roma al Parco dei Principi o nella casa di Piazza di Spagna – ma probabilmente nell'uno e nell'altro luogo – deve connettere tre segmenti di intelligence. Il Sismi di Nicolò Pollari. L'Iraqi National Congress di Ahmed Chalabi. Il "Consiglio supremo della rivoluzione" e le Brigate Sadr di Muhammad e Abdalaziz al-Hakim. L'integrazione del lavoro e del "prodotto" delle tre "reti" può offrire informazioni essenziali alla pianificazione dell'intervento militare angloamericano e, soprattutto, una concreta valutazione della consistenza delle difese saddamite; della volontà di combattere dei suoi generali; dell'arsenale d'armi di cui Saddam, al di là delle influence operations, davvero dispone. Ognuna delle tre intelligence può mettere sul tavolo un asso che tornerà buono al Pentagono.

Il Sismi vanta i buoni contatti con gli ufficiali che, negli Anni Ottanta, furono addestrati in Italia. Con il tempo, sono diventati informatori e "fonti". L'Iraqi National Congress conta sui disertori del regime. Lo Sciri è custode del monitoraggio costante del territorio perché, spiega a Repubblica Muhammad Baqir al-Hakim prima di essere ucciso il 18 marzo 2003, «le Brigate Sadr, con milizie indipendenti l'una dall'altra, sono a Bagdad, nel Kurdistan iracheno, nel sud iraniano». Soprattutto in quest'area, da Kerbala e Najaf fino a Bassora e alla penisola di al Faw, al confine con il Kuwait, nessuna mossa sfugge all'invisibile network informativo sciita disposto nella zona di non volo a sud del 33esimo parallelo, il territorio fondamentale per qualsiasi invasione di terra.

I piani operativi del Pentagono prevedono che le attività belliche sul terreno siano "orientate" dalle informazioni che le intelligence saranno in grado di rubare in Iraq, oltre la linea del fronte. Le informazioni verranno raccolte dal Comando unificato anglo-americano in tempo reale, incrociate, elaborate e quindi trasformate in istruzioni alle unità combattenti. L'idea è a suo modo elementare. "Illuminare", dall'interno del Paese, gli obiettivi, i dispositivi di difesa e di contrattacco di un nemico di cui si ignora l'esatta dislocazione delle forze militari e delle milizie mimetizzate tra la popolazione civile. C'è anche un secondo indirizzo di lavoro, addirittura più rilevante del primo. Al di là delle linee, gli "infiltrati" dovranno preparare il terreno a un "patto segreto" (safqa, in arabo) «per la resa del Paese». Il patto «prevede un pacchetto di salvacondotti per i comandanti della Guardia repubblicana, delle milizie del partito Baath e dei fedayn del presidente». In un secondo momento, gli americani si preoccuperanno di «offrire laute ricompense, la possibilità di risiedere negli Stati Uniti, insieme alle loro famiglie, e soprattutto di svolgere un ruolo di spicco in collegamento con alcune fazioni dell'opposizione irachena, prima fra tutte l'Iraqi National Congress».

Accanto allo Sciri e agli uomini di Chalabi, l'Italia potrà fare la sua parte in questa compravendita del regime a Bagdad e Bassora, tutt'altro che sconosciute al nostro controspionaggio militare. D'altronde, l'intervento in Mesopotamia, nella sua prima parte (fino a «la missione è compiuta» di Bush) non è stato altro che «semplice corruzione di un sistema fatiscente di funzionari che si è venduto in blocco alla Cia». Gli agenti del Sismi si mettono al lavoro. È il momento di tornare sulla terrazza dell'Eden e ascoltare ancora l'uomo del Sismi.

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