Da La Repubblica del 04/11/2005

Un pool tra Gucci, Prada, Vuitton, Chanel e Burberry per cercare di fermare il più grande centro di vendita di merci contraffatte

Alla sbarra in Cina il mercato dei falsi

La "santa alleanza" delle griffe porta in tribunale il Silk Market di Pechino

I venditori disposti a pagare 400 mila euro per ottenere un posto negli shopping center
Ora anche gli stilisti locali si pongono il problema di difendere il loro lavoro

di Federico Rampini

PECHINO - Nasce una santa alleanza del lusso occidentale per fare la guerra alla contraffazione cinese. Il made in Italy di Prada e Gucci, il made in France di Louis Vuitton e Chanel, il made in Britain di Burberry, sono i grandi nomi che hanno fatto causa comune per una sfida che sembra impossibile: far chiudere il più celebre shopping center dei falsari di Pechino, quel Silk Market (mercato della seta) che è la terza attrazione per il turismo internazionale in Cina, subito dopo la Città Proibita e la Grande Muraglia. Gucci, Prada, Vuitton, Chanel e Burberry hanno ingaggiato un noto avvocato cinese, Gao Hualin, per trascinare in tribunale la società che gestisce l'intero Silk Market e cinque negozi che vi affittano altrettanti spazi commerciali. E' la prima volta che a Pechino scende in campo una simile coalizione trasversale tra griffes del lusso italiane, francesi e inglesi. Ed è la prima volta che l'industria della moda europea scatena in Cina una battaglia giudiziaria di così alto profilo, tale da conquistarsi un articolo sul quotidiano ufficiale China Daily gestito dal governo. La prima udienza del processo si è tenuta martedì alla seconda corte di Pechino. La richiesta di danni presentata dall'avvocato Gao è di 309.000 dollari, da suddividersi tra la Beijing Xiushui Haosen Clothing Market Company che gestisce l'intero centro commerciale e le cinque boutique sue inquiline.

La cifra non è alta secondo gli standard occidentali, ma è il valore simbolico e il significato politico del processo che attira l'attenzione. Finora l'industria europea del tessile-abbigliamento ha fatto pressione sui governi per una più efficace lotta alla contraffazione soprattutto in casa propria cioè sui mercati occidentali, attraverso controlli alle dogane, sequestri nei porti e negli aeroporti, blitz sulle bancarelle. A portare la battaglia dentro la stessa Cina ci hanno provato di più gli americani, e prevalentemente in altri settori. Microsoft e le major cinematografiche di Hollywood esercitano una pressione costante per ottenere dalle autorità cinesi il rispetto delle regole sulla tutela del copyright. L'ambasciata americana a Pechino ha ormai dei funzionari di polizia che si dedicano a tempo pieno all guerra contro la pirateria. I risultati finora sono stati più di apparenza che di sostanza. Ad ogni visita di un presidente americano (George Bush è atteso qui a fine mese), di un segretario di Stato o di un ministro del Tesoro Usa, i telegiornali cinesi trasmettono le immagini di «blitz» della polizia locale che distrugge Dvd copiati o software-pirata. Passata la visita di solito rientra anche l'allarme e il business dei falsari torna nella normalità.

La stessa sorte è già toccata proprio al celeberrimo Silk Market. All'origine le bancarelle specializzate nelle griffes famose, dai falsi Armani alle copie delle Nike, si trovavano all'aperto, vicino al parco Ritan, cioè quasi provocatoriamente ai margini del quartiere delle ambasciate. Più di 10.000 visitatori nei giorni lavorativi, oltre 20.000 turisti ogni sabato e domenica, affollavano «il viale della seta» ben visibile dalle finestre dell'ambasciatore americano. Dopo numerose proteste dei governi stranieri, un anno fa Pechino ha preso la decisione di chiudere lo storico mercato. Non per causa di pirateria, bensì ufficialmente per avere constatato che le bancarelle all'aperto non erano in regola con la normativa anti-incendio. E la «chiusura» si è rivelata in realtà un semplice trasloco. Il Silk Market è stato spostato di poche centinaia di metri, dentro uno shopping mall nuovo fiammante gestito appunto dalla società Beijing Xiushui Haosen. Quando la nuova sede è stata inaugurata, per vendere gli spazi commerciali è stata indetta nel giugno scorso un'asta competitiva: i prezzi per uno stand di cinque metri quadrati sono balzati a 400.000 euro, una quotazione che la dice lunga sul giro d'affari dei negozianti. In tutto il nuovo shopping mall arriverà a ospitare alla fine di quest'anno oltre mille negozi su 28.000 metri quadri, il doppio rispetto alla vecchia struttura del mercatino all'aperto.

L'unica speranza a questo punto sta nel far funzionare i tribunali cinesi. Venendo da una tradizione di soggezione al potere politico e quindi al partito comunista, il sistema giudiziario cinese ha iniziato da poco la sua modernizzazione, spinto dagli impegni sottoscritti nell'aderire al Wto (l'organizzazione del commercio mondiale). Anche le aziende cinesi, via via che si sviluppa l'economia di mercato, hanno bisogno di tribunali efficienti.

Grandi gruppi come la Lenovo, l'impresa informatica che un anno fa ha rilevato l'intera divisione personal computer della Ibm, o la Tlc che ha comprato i televisori Rca-Thomson, hanno ormai i loro brevetti e i loro copyright da difendere contro le imitazioni.

Perfino nel campo della moda si sono ormai affermati degli stilisti cinesi - Shanghai Tang, Lu Ping, Gu Lin, He Hongyu - che devono difendersi dalle copie. In molti altri settori, per esempio nel mercato immobiliare, si assiste alla nascita di una società civile di piccoli proprietari che hanno dei diritti da difendere.

In parallelo sta crescendo a vista d'occhio un esercito di avvocati più agguerriti che nel passato. La battaglia giudiziaria lanciata da Prada, Gucci, Vuitton, Chanel e Burberry è una nuova frustata per il sistema giudiziario ma non l'unica. A fianco a loro c'è anche un piccolo commerciante pechinese che ha citato in giudizio la stessa società proprietaria del shopping center, ma per un altro motivo. Il commerciante rivendica di essere stato il primo a usare il nome di «Silk Market». Per l'indebita appropriazione della sua insegna, chiede 423.000 dollari di indennizzo: più dei cinque grandi del lusso europeo.

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