Da La Repubblica del 12/11/2005
Intervista a Peter Hall, uno dei massimi esperti di aree metropolitane: anche in Italia rischio latente di rivolte
"Evitate di creare ghetti urbani una scintilla scatena la violenza"
"La scuola islamica chiusa a Milano? E´ giusto non segregare su base religiosa". Il caso Bologna: "Le baraccopoli possono diventare enclave senza controllo"
di Cinzia Sasso
MILANO - Peter Hall, dell´University College di Londra, è tra i massimi esperti mondiali di aree metropolitane. Ieri a Berna è stato premiato con il Balzan 2005 proprio per i suoi studi e le sue analisi sui problemi sociali ed economici delle città.
Professore, pensa che la rivolta degli immigrati possa scoppiare anche nelle periferie delle città italiane?
«Se gli immigrati sono tanti, maschi, emarginati e disoccupati, il rischio di conflitti è alto. Ed è latente: a Parigi, e, poche settimane prima, anche se in tono minore, a Birmingham, è bastata una scintilla per scatenare la violenza. Se esistono concentrazioni di cittadini di serie B che non vedono come possono diventare di serie A, che hanno solo un brutto presente e un futuro da emarginati, il rischio c´è».
Quello francese, dunque, è un modello che può essere esportato?
«Dipende da quello che decidono di fare i governi locali: a Parigi i fatti di oggi sono il risultato della politica adottata dal sindaco Chirac negli anni ‘70: segregazione nelle aree extraurbane degli immigrati. Ora la seconda generazione, che ha un´identità ancora più confusa, si sta ribellando a quella situazione di emarginazione; l´esclusione, per i figli, è diventata inaccettabile. In città di immigrazione più recente, come possono essere Roma e Milano, è fondamentale evitare di formare dei ghetti e anche evitare l´autoghettizzazione spontanea».
Con ondate migratorie importanti, non diventa strutturale questa sorta di ghettizzazione?
«Sì, è naturale che gli ultimi arrivati finiscano nelle zone più periferiche e povere. Ma l´evento cruciale è la velocità con cui questi nuovi cittadini riescono a migliorare la loro situazione di partenza e in questo le politiche hanno una parte importante. Dal punto di vista urbanistico serve disperdere la concentrazione, non permettere che si creino aree omogenee di esclusione. Più in generale è fondamentale la questione dell´istruzione: fin dal nido i bambini devono essere inseriti nelle scuole, è l´unico modo per dare poi loro la possibilità di concorrere ad armi pari, di avere prospettive di lavoro e quindi di inserimento reale».
A Milano si è molto discusso della scuola islamica, che è stata chiusa. Era giusto costringere tutti a frequentare la scuola statale, anche a costo di affrontare la dispersione scolastica?
«Per la società è pericoloso accettare il principio della segregazione sulla base della religione, della lingua o della razza. La scuola non può essere un ghetto, è una strada che porta alla segregazione più marcata, che accentua lo svantaggio, che rischia di portare al fondamentalismo. Si possono accogliere delle richieste, ad esempio lo studio del Corano al pomeriggio, e la sua valorizzazione nel percorso educativo».
A Bologna un sindaco di sinistra ha sgomberato una baraccopoli abitata da rumeni perché era pericolosa anche dal punto di vista dell´incolumità fisica. Giusto o sbagliato, dal suo punto di vista?
«In Sudamerica le baraccopoli si formano spontaneamente e poi vengono legalizzate. Ma questa è una strada che non consente nessun ragionamento sulle città. Ci sono degli standard minimi che devono essere rispettati, non si possono accettare delle enclave incontrollabili».
Professore, pensa che la rivolta degli immigrati possa scoppiare anche nelle periferie delle città italiane?
«Se gli immigrati sono tanti, maschi, emarginati e disoccupati, il rischio di conflitti è alto. Ed è latente: a Parigi, e, poche settimane prima, anche se in tono minore, a Birmingham, è bastata una scintilla per scatenare la violenza. Se esistono concentrazioni di cittadini di serie B che non vedono come possono diventare di serie A, che hanno solo un brutto presente e un futuro da emarginati, il rischio c´è».
Quello francese, dunque, è un modello che può essere esportato?
«Dipende da quello che decidono di fare i governi locali: a Parigi i fatti di oggi sono il risultato della politica adottata dal sindaco Chirac negli anni ‘70: segregazione nelle aree extraurbane degli immigrati. Ora la seconda generazione, che ha un´identità ancora più confusa, si sta ribellando a quella situazione di emarginazione; l´esclusione, per i figli, è diventata inaccettabile. In città di immigrazione più recente, come possono essere Roma e Milano, è fondamentale evitare di formare dei ghetti e anche evitare l´autoghettizzazione spontanea».
Con ondate migratorie importanti, non diventa strutturale questa sorta di ghettizzazione?
«Sì, è naturale che gli ultimi arrivati finiscano nelle zone più periferiche e povere. Ma l´evento cruciale è la velocità con cui questi nuovi cittadini riescono a migliorare la loro situazione di partenza e in questo le politiche hanno una parte importante. Dal punto di vista urbanistico serve disperdere la concentrazione, non permettere che si creino aree omogenee di esclusione. Più in generale è fondamentale la questione dell´istruzione: fin dal nido i bambini devono essere inseriti nelle scuole, è l´unico modo per dare poi loro la possibilità di concorrere ad armi pari, di avere prospettive di lavoro e quindi di inserimento reale».
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