Da Corriere della Sera del 17/11/2005
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2005/11_Novembre/17/senatu...

Dopo l'approvazione della riforma costituzionale della devoluzione

Il pugno del Senatur e le due Italia

Bossi sul referendum: «Il Paese non accetterà di dividersi. Non credo che metà voterà sì e metà voterà no»

di Gian Antonio Stella

Non una piega, uno sbadiglio, un sospiro. Solo un accenno di cedimento al sonno, durante un paio di interventi particolarmente soporiferi. Ma senza cedere all’abbiocco. Una piccola sentinella lombarda. Capèl . Sono quasi le otto di sera, i senatori sciamano cicaleggiando verso le uscite, sul balcone degli uffici della Lega appare uno striscione: «Viva Bossi!». Dentro, tappi di spumante che saltano, bicchieri che passano di mano in mano, brindisi che si levano al cielo via via che arrivano tutti quelli che vogliono bagnare l’avvenimento. Alla televisione, a un certo punto, appare Marco Follini. Dice quel che ha sempre detto: al referendum che dovrà confermare o bocciare la scelta della Casa delle Libertà lui voterà contro. «Ma vaffa...!», sbotta ridendo Bobo Maroni, «Finalmente te lo possiamo dire: e vaffa...!».

Umberto Bossi, che al momento dell’approvazione definitiva in aula, passata con 9 voti di margine sulla maggioranza richiesta, è scattato in piedi sulle gambe incerte per mostrare a tutti in segno di vittoria il pugno destro, simbolo della antica forza guerriera piegata ma non domata dalla malattia, spiega che nella consultazione referendaria «il Paese non accetterà di dividersi. Non credo che metà voterà sì e metà voterà no». E nel giorno del suo trionfo, riconosciuto anche dagli avversari (sia pure in polemica con chi avrebbe ceduto ai ricatti leghisti) accantona una volta di più i toni bellicosi usati fino a due anni fa, quando barriva che «democristiani, comunisti e socialisti erano gente da tirar giù, da portare in piazza e fucilare, perché se uno porta il paese al fallimento lo si fucila», per svelenire il clima. E assicura che l’importante è che «davanti alla richiesta dei cittadini e della base si sia accettata la sfida del federalismo. Poi si può discutere, perché la perfezione non è di questo mondo».

Sarà. Ma a vedere il dibattito appena finito, a sentire in Transatlantico i commenti dell’una e dell’altra fazione, a leggere le parole dettate alle agenzie dai falchi della destra e della sinistra, pare che il clima non sia destinato affatto a rasserenarsi. Anzi. Perché capita spesso, per carità, di vedere due diverse interpretazioni dello stesso fatto. Ma rare volte la distanza tra le diverse posizioni è apparsa siderale come in questo caso. E potete scommettere che la temperatura dello scontro, via via che si avvicinerà il referendum per il quale giunte regionali rosse come quella campana guidata da Antonio Bassolino hanno deliberato l’iniziativa referendaria un quarto d’ora dopo il voto a palazzo Madama, si farà sempre più incandescente. Sono due Italie che non si parlano, quelle viste ieri al Senato. Peggio: che non vogliono neppure parlarsi. Preferendo ciascuna coltivare il proprio orto, le proprie certezze, il proprio elettorato.

Due Italie opposte, con punti di riferimento, valori, letture, obiettivi, gusti televisivi, linguaggi opposti. A partire dal rapporto col Numero Uno. Di qua c’è quella che va in delirio per Silvio Berlusconi e plaude alle sue iniziative e crede nella sua capacità di rimonta e ride alle sue barzellette e canticchia seguendo con le labbra le sue canzoni in coppia con Mariano Apicella e palpita fremente per le sue sfuriate contro i comunisti e si commuove per mamma Rosa che compatisce tenera tenera il suo figliolo chiedendogli: «Perché non pianti tutto e lasci che gli italiani si arrangino da soli?». Di qua quella che non sopporta il Cavaliere e ride delle sue gaffes quando parla di «Romolo e Remolo» e si scusa imbarazzata con gli amici stranieri se il Cavaliere difende il suo amico Vladimir Putin definendo «leggende» le accuse di violenze inaccettabili rivolte ai russi in Cecenia e gli rinfaccia gli strepitosi aumenti degli utili delle sue società in questi anni di vacche magre e sghignazza dei suoi tacchi alti e dei trapianti dei capelli.

Due Italie in cui ciascuno parla a quelli della sua parte, ormai indifferente all’opinione degli altri perché convinto che la frattura sia così profonda che non valga la pena di sprecare fiato e parole. Ed ecco che di qua Willer Bordon tuona per la Margherita contro il «tentativo, mai così devastante, di modificare qualità e quantità di oltre 50 articoli della nostra Costituzione con lo svuotamento dei poteri del presidente della Repubblica, con la svendita del Senato, con l’umiliazione più in generale del Parlamento, con la politicizzazione della Corte costituzionale e con un premier sospeso tra una condizione di onnipotenza e il ricatto di parti marginali della sua maggioranza o di un infernale guazzabuglio di ingorghi legislativi e contenziosi costituzionali». E di là Mimmo Nania, per Alleanza nazionale, irride agli avversari: «Se governate voi, potete far le riforme; se governiamo noi del centrodestra, siccome voi siete grandi scienziati e il Padre Eterno, quando ha distribuito l’intelligenza, vi ha fatto sedere tutti in prima fila, noi, dato che siamo sempre nell’ultima, le riforme non le possiamo fare; o meglio, le riforme, se governiamo noi, le possiamo fare insieme. Siccome voi insieme con noi non le volete fare, le riforme non si debbono fare. Quindi, o governate voi e le fate come volete, anche da soli, o governiamo noi, vi preghiamo di farle insieme, ma non siete d’accordo: la conclusione è che stabilite voi quello che si deve fare, sia quando governate, sia quando non governate».

Di qua il verde Sauro Torroni chiede un minuto di silenzio per commemorare il «giorno funesto per la Repubblica, di lutto per la democrazia». Di là il leghista Ettore Piero Pirovano esalta euforico la storica giornata e su tutti esalta, benedicendolo lassù sul palchetto dove svetta con la moglie Manuela e i tre figli minori, il Senatùr, «quest’uomo che ha anteposto ad ogni bene la libertà» ed è riuscito a mettere insieme «un movimento composto da uomini liberi, scevri da ideologie, autonomi nelle tattiche, ma tesi, con l’unica strategia, al medesimo ideale». Di qua Gavino Angius, reso omaggio al nemico ferito («a lei, onorevole Bossi, il nostro e mio personale affettuoso augurio di buona salute. Siamo contenti che lei sia qui con noi oggi»), spara a zero sulla scelta della destra bollandola come una «pagina nera» del Parlamento e sfregia Berlusconi chiedendogli se quando parla di sfrattati pensa a se stesso fra qualche mese da palazzo Chigi e ricorda che «la nostra Carta costituzionale non consente a nessuno che essa possa trasformarsi in una dittatura del proletariato, ma neanche nella dittatura di un uomo solo» e ribattezza sprezzante la «devolution» come «dissolution». Di là Renato Schifani rivendica «l’obbligo» che aveva la destra di «correggere gli errori fatti dalla sinistra che con soli 4 voti in più aveva cambiato la Costituzione» e spiega che «paradossalmente la riforma attuale in alcuni punti è meno federale e meno regionalista» e vanta al governo il merito di avere «aumentato il Fondo sanitario nazionale da 65 a 93 miliardi di euro» e assicura che adesso sì, col nuovo pacchetto di regole, viene «cancellato il pericolo di provocare realmente la dissoluzione del Paese».

E mentre i tifosi più accesi dell’una e dell’altra parte si urlano di tutto («Per piacere, parla in siciliano!», «Vergognatevi!»), si affaccia l’impressione che anche questo momento storico, così solenne per una metà e così catastrofico per l’altra, sia in realtà per molti indignati a gettone solo un gioco delle parti. Portato avanti, talora, perfino con una specie di aggressività di mestiere, obbligata e pigra. Davanti alla quale un vecchio nobiluomo riluttante a schierarsi per bande come Domenico Fisichella stiracchia sorrisetti amari. Rassegnato a citare la storia della sua famiglia, il Risorgimento e le repressioni borboniche, il sentimento di servir la patria in uniforme e le medaglie al valor militare e l’internamento nei campi di concentramento nazisti, tra sorrisi di compatimento.

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