Da La Repubblica del 18/11/2005
Alleati senza nessuna fiducia crolla l'appoggio alla Coalizione
Solo 6 iracheni su cento sostengono l'occupazione
di Guido Rampoldi
SECONDO un'indagine commissionata dalla "Coalizione dei volenterosi" ormai soltanto il 6% della popolazione irachena appoggia le forze americane e i contingenti alleati, tra i quali il nostro. A questa caduta verticale del consenso concorre la percezione crescente che la presenza di quelle truppe sia fonte di guai più che di stabilità: da marzo agli ultimi giorni di ottobre, inizio e fine dell'indagine, la quota di quanti si sentono meno sicuri quando vedono un giro i soldati della Coalizione è passata dal 53 al 67%. Nelle province del sud, tra le quali Nassiriya, si rafforza invece la fiducia nelle milizie sciite (ufficialmente forze irachene): la maggioranza ritiene che nel futuro prossimo migliorerà la loro capacità di mantenere una certa pace. Ai più la situazione appare né migliore né peggiore dello scorso anno. Il nord ormai fuori dalla mischia, il sud relativamente quieto ma senza lavoro (è disoccupato il 35%), il centro una bolgia. Ma gli iracheni convinti che il Paese progredisca diminuiscono ad un ritmo spedito (-4% al mese su base nazionale, -2% nel sud).
Ed è allarmante la progressione con cui aumentano quelli che si «oppongono con forza» alla Coalizione (+2% per cento al mese anche a Nassiriya). Questa animosità anti-occidentale, e il timore di orientare le risposte, hanno suggerito ai ricercatori iracheni di non rivelare agli interpellati chi avesse commissionato la loro indagine.
Nel complesso il verdetto dell'Iraq Nationwide Trending Poll, ovvero indagine sulle tendenze dell'opinione pubblica in Iraq, conferma quanto è evidente anche a chi non crede ai sondaggi: malgrado elezioni e referendum l'avventura irachena procede verso il fiasco. Se le cose non cambiassero nella migliore delle ipotesi la Coalizione si lascerebbe alle spalle molto più rancore che gratitudine. Nella peggiore avrebbe fatto fuori il Paese che doveva liberare. Ma il disastro non è definitivo e si potrebbe almeno tentare di correre ai ripari. Come l'indagine indirettamente suggerisce, a Nassirya l'Italia sarebbe assai più benvoluta se Roma avesse impegnato diversamente il denaro che ha gettato nel calderone d'una ricostruzione caotica: se cioè avesse corrisposto alle richieste più pressanti della popolazione (innanzitutto ripristinare la piena funzionalità della centrale elettrica russa: tre anni dopo la fine della guerra funziona ancora ad un terzo del suo potenziale e infligge black-out giornalieri). Probabilmente non sarebbe cambiato molto, Nassirya avrebbe ugualmente per governatore una probabile spia di Teheran e il partito più votato, lì come in Iraq, resterebbe quello Sciri filo-iraniano che ora può usare la nuova Costituzione per accorpare le nove province sciite in una sorta di staterello autonomo, poi per introdurre mediante referendum il sistema teocratico khomeinista. Ma forse l'Eni potrebbe guardare con minore apprensione al giacimento che ebbe in concessione da Saddam.
Oggi almeno una parte del governo sembra consapevole che a Nassirya l'Italia può e deve salvare un'immagine altrimenti compromessa, e con quella i nostri legittimi interessi laggiù. Ma una correzione di rotta gioverebbe a poco nel caso d'un naufragio della Coalizione in Iraq. Dunque è l'intera alleanza che dovrebbe correre ai ripari cambiando strategie, timonieri, metodi, forse la sua stessa identità; facendo pubblica ammenda per errori ed orrori commessi; coinvolgendo i titubanti Paesi arabi; e magari ridislocando le truppe lì dove siano davvero necessarie. Forse qualcosa sarà tentato, e stimoli potrebbero arrivare già dalla "Conferenza di riconciliazione" tra le varie fazioni irachene, se queste riuscissero a trovare un accordo che includa anche parte della guerriglia sunnita (una riunione preparatoria comincia sabato al Cairo). Ma al momento un compromesso sembra molto complicato, così come lo sarebbe convincere Washington a rinunciare alle sue basi aeree nel deserto, se non l'unico certo il più rilevante risultato strategico finora incassato dagli americani. Quanto agli europei, la loro fretta di disimpegnarsi pare ormai irrefrenabile.
I polacchi cominceranno il ritiro a dicembre; i britannici cinque mesi dopo, fa sapere il governo Blair al Guardian di Londra; gli italiani non saranno né primi né ultimi. Però le forme saranno salve. Gli uni e gli altri saluteranno le elezioni di dicembre come la riprova che in Iraq la democrazia si consolida, e prendendo a pretesto il fatto che il loro territorio di pertinenza, il sud sciita, è abbastanza quieto, proclameranno il `Missione compiuta'. Egemoni anche nel prossimo futuro, i partiti sciiti non dovrebbero obiettare al ritiro di truppe straniere da territori grossomodo controllati dalle loro milizie.
Nel frattempo in Italia andrà in onda questa mesta pantomima per la quale lo stato maggiore bisbiglia al governo che l'Iraq rischia la libanizzazione, e il governo racconta agli italiani che per nostro merito laggiù sta fiorendo la democrazia. Faremo finta che a Nassirya gli iracheni ci vogliano bene e, come assicura il ministro Martino, «non li tradiremo»: però, accada quel che accada, abbiamo già deciso che si torna a casa. Non resta che preparare l'opinione pubblica alle verità finora taciute da gran parte dell'informazione. La conversione non è agevole ma niente paura, siamo il Paese del trasformismo: basta premettere «io non ero d'accordo con l'invasione». Giornalisti, politici, generali, diplomatici: pare che tutti trattenessero nel petto quell'intima e sofferta convinzione che solo ora, finalmente, può essere espressa. Tra i pochi che non si aggiungono al coro dei ravveduti, di questo bisogna dargli atto, c'è Giuliano Ferrara. L'uomo non perde mai una crociera del Titanic, e se c'è lui a bordo potete star sicuri che prima o poi si cola a picco. Però sa affondare con stile, in piedi sulla tolda mentre i camerieri rissano intorno alle scialuppe. Ma adesso il Foglio dovrà pure spiegare ai suoi lettori che l'Iraq non somiglia al Paese finora raccontato dai copisti dell'American Enterprise.
Ed è allarmante la progressione con cui aumentano quelli che si «oppongono con forza» alla Coalizione (+2% per cento al mese anche a Nassiriya). Questa animosità anti-occidentale, e il timore di orientare le risposte, hanno suggerito ai ricercatori iracheni di non rivelare agli interpellati chi avesse commissionato la loro indagine.
Nel complesso il verdetto dell'Iraq Nationwide Trending Poll, ovvero indagine sulle tendenze dell'opinione pubblica in Iraq, conferma quanto è evidente anche a chi non crede ai sondaggi: malgrado elezioni e referendum l'avventura irachena procede verso il fiasco. Se le cose non cambiassero nella migliore delle ipotesi la Coalizione si lascerebbe alle spalle molto più rancore che gratitudine. Nella peggiore avrebbe fatto fuori il Paese che doveva liberare. Ma il disastro non è definitivo e si potrebbe almeno tentare di correre ai ripari. Come l'indagine indirettamente suggerisce, a Nassirya l'Italia sarebbe assai più benvoluta se Roma avesse impegnato diversamente il denaro che ha gettato nel calderone d'una ricostruzione caotica: se cioè avesse corrisposto alle richieste più pressanti della popolazione (innanzitutto ripristinare la piena funzionalità della centrale elettrica russa: tre anni dopo la fine della guerra funziona ancora ad un terzo del suo potenziale e infligge black-out giornalieri). Probabilmente non sarebbe cambiato molto, Nassirya avrebbe ugualmente per governatore una probabile spia di Teheran e il partito più votato, lì come in Iraq, resterebbe quello Sciri filo-iraniano che ora può usare la nuova Costituzione per accorpare le nove province sciite in una sorta di staterello autonomo, poi per introdurre mediante referendum il sistema teocratico khomeinista. Ma forse l'Eni potrebbe guardare con minore apprensione al giacimento che ebbe in concessione da Saddam.
Oggi almeno una parte del governo sembra consapevole che a Nassirya l'Italia può e deve salvare un'immagine altrimenti compromessa, e con quella i nostri legittimi interessi laggiù. Ma una correzione di rotta gioverebbe a poco nel caso d'un naufragio della Coalizione in Iraq. Dunque è l'intera alleanza che dovrebbe correre ai ripari cambiando strategie, timonieri, metodi, forse la sua stessa identità; facendo pubblica ammenda per errori ed orrori commessi; coinvolgendo i titubanti Paesi arabi; e magari ridislocando le truppe lì dove siano davvero necessarie. Forse qualcosa sarà tentato, e stimoli potrebbero arrivare già dalla "Conferenza di riconciliazione" tra le varie fazioni irachene, se queste riuscissero a trovare un accordo che includa anche parte della guerriglia sunnita (una riunione preparatoria comincia sabato al Cairo). Ma al momento un compromesso sembra molto complicato, così come lo sarebbe convincere Washington a rinunciare alle sue basi aeree nel deserto, se non l'unico certo il più rilevante risultato strategico finora incassato dagli americani. Quanto agli europei, la loro fretta di disimpegnarsi pare ormai irrefrenabile.
I polacchi cominceranno il ritiro a dicembre; i britannici cinque mesi dopo, fa sapere il governo Blair al Guardian di Londra; gli italiani non saranno né primi né ultimi. Però le forme saranno salve. Gli uni e gli altri saluteranno le elezioni di dicembre come la riprova che in Iraq la democrazia si consolida, e prendendo a pretesto il fatto che il loro territorio di pertinenza, il sud sciita, è abbastanza quieto, proclameranno il `Missione compiuta'. Egemoni anche nel prossimo futuro, i partiti sciiti non dovrebbero obiettare al ritiro di truppe straniere da territori grossomodo controllati dalle loro milizie.
Nel frattempo in Italia andrà in onda questa mesta pantomima per la quale lo stato maggiore bisbiglia al governo che l'Iraq rischia la libanizzazione, e il governo racconta agli italiani che per nostro merito laggiù sta fiorendo la democrazia. Faremo finta che a Nassirya gli iracheni ci vogliano bene e, come assicura il ministro Martino, «non li tradiremo»: però, accada quel che accada, abbiamo già deciso che si torna a casa. Non resta che preparare l'opinione pubblica alle verità finora taciute da gran parte dell'informazione. La conversione non è agevole ma niente paura, siamo il Paese del trasformismo: basta premettere «io non ero d'accordo con l'invasione». Giornalisti, politici, generali, diplomatici: pare che tutti trattenessero nel petto quell'intima e sofferta convinzione che solo ora, finalmente, può essere espressa. Tra i pochi che non si aggiungono al coro dei ravveduti, di questo bisogna dargli atto, c'è Giuliano Ferrara. L'uomo non perde mai una crociera del Titanic, e se c'è lui a bordo potete star sicuri che prima o poi si cola a picco. Però sa affondare con stile, in piedi sulla tolda mentre i camerieri rissano intorno alle scialuppe. Ma adesso il Foglio dovrà pure spiegare ai suoi lettori che l'Iraq non somiglia al Paese finora raccontato dai copisti dell'American Enterprise.
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