Da La Repubblica del 19/11/2005

Dall'ultima visita del presidente Usa a Pechino i rapporti di forza sono cambiati

La doppia sfida tra Usa e Cina

di Federico Rampini

PECHINO - C'è posto per l'aquila degli Stati Uniti e per il dragone cinese sullo stesso pianeta? La questione fa da sfondo da oggi alla visita di George Bush a Pechino, la prima dal febbraio 2002, in un mondo trasformato dall'ascesa della Cina.

Se la pongono gli americani, osservando quanto i rapporti di forza tra le due superpotenze sono cambiati in questi tre anni e mezzo. «Bush - scrive un quotidiano che pure gli è vicino, il Wall Street Journal - arriva in Cina come un leader dimezzato, con un crollo di popolarità in patria e una credibilità svanita all'estero. Il presidente Hu Jintao, dall'altra parte, sembra in piena avanzata soprattutto sulla scena internazionale».

Come forza economica la Cina è in vantaggio nel commercio bilaterale per 200 miliardi di dollari ed ha accumulato 750 miliardi di dollari di riserve valutarie ufficiali, gran parte delle quali in BoT americani: fino a ieri paese del Terzo mondo, oggi è al tempo stesso il banchiere degli Stati Uniti e il fornitore dei suoi supermercati. In politica estera, prima ancora di venire a misurarsi con la difficile trasferta asiatica Bush ha incassato delusioni anche dove un tempo l'influenza di Washington era più forte, in America latina. All'ultimo Vertice delle Americhe in Argentina la contestazione è stata dura. Hu Jintao invece corteggia con successo il Venezuela, importante produttore di petrolio, il Brasile e perfino il Cile con cui ha firmato un trattato di libero scambio.

La penetrazione nel «cortile di casa» degli americani si aggiunge ai colpi della politica estera cinese in altri continenti. Pechino si allarga in Iran, Sudan e altri Stati africani; rafforza l'integrazione economica con l'India e la Corea del Sud, altri alleati tradizionali degli Stati Uniti. Il bisogno di sbocchi commerciali e di materie prime per sostenere l'impetuosa crescita economica del gigante asiatico, diventa il motore di una espansione politica che entra in rotta di collisione con gli interessi strategici americani. Gli studiosi delle storie imperiali, come John Mearsheimer dell'università di Chicago, non hanno dubbi: non c'è posto per aquila e dragone insieme, il conflitto tra la potenza egemone e quella emergente è inevitabile.

In realtà i rapporti sino-americani non sono così unidimensionali. Assieme alla evidente rivalità ci sono robusti interessi comuni, zone di complicità e collusione. L'economia è il terreno di tutte le ambiguità. È vero che la Cina ha in pugno gli Stati Uniti: li invade di merci a prezzi imbattibili e con il ricavato delle esportazioni accumula una montagna di titoli pubblici Usa nei forzieri della banca centrale di Pechino. Ma come tutti i creditori la Cina non ha alcun interesse a veder fallire il suo debitore-cliente. Nel più grande esodo rurale mai visto nella storia dell'umanità, ogni anno venti milioni di contadini cinesi abbandonano le campagne in cerca di un posto di lavoro in città, bussano ai cancelli delle fabbriche sperando di essere assunti.

Per soddisfare quella speranza, evitare l'esplosione della disoccupazione di massa e mantenere la stabilità sociale, Pechino ha bisogno che il made in China continui a invadere i mercati mondiali a cominciare da quello americano. L'affetto è ben ricambiato dalle multinazionali americane: una sola catena di ipermercati, la Wal-Mart, compra più prodotti cinesi di quanti ne importino dieci Stati dell'Unione europea. Il 60% delle esportazioni cinesi nel mondo porta l'etichetta di grandi marche occidentali. Perciò Bush non ascolta il suo Congresso che gli propone un dazio del 27% contro il made in China. E Hu Jintao restituisce il favore con delle consistenti auto-limitazioni nelle vendite di prodotti tessili cinesi. Può essere patologica la simbiosi che si è instaurata tra il paese più indebitato del mondo, cioè l'America, e quello che ha la più colossale montagna di risparmi (i cinesi mettono da parte il 40% del loro Prodotto interno lordo), ma nessuno ha voglia di vedere cosa succederà se quell'equilibrio salta per aria.

Sul fronte politico-militare la situazione è più tesa. I falchi neoconservatori hanno sempre visto nella Cina il futuro rivale strategico, nei loro scenari hanno già candidato Pechino a riempire il posto che fu dell'Urss nella guerra fredda: un avversario «sistemico». Lo choc dell'11 settembre costrinse l'Amministrazione Bush al compromesso: l'appoggio della Cina era importante nella guerra al terrorismo. Oggi però le teorie dei neocon tornano in auge. Prima il Pentagono, poi il Congresso di Washington, hanno approvato documenti allarmati sul riarmo della Cina, denunciando una minaccia alla sicurezza e agli interessi vitali degli Stati Uniti. Bush incoraggia il nazionalismo giapponese, va a visitare un nuovo alleato in Mongolia, corteggia perfino il Vietnam, pur di costruire un cordone sanitario attorno a Pechino. Hu Jintao non perde occasione per contestare le visioni dei falchi americani, a cui oppone la teoria confuciana di un «mondo armonioso» e di una «pacifica ascesa» cinese. La sua visione combina il neoliberismo (l'economia globale di mercato come un sistema in cui tutti hanno da guadagnare) e il multilateralismo per ingabbiare la supremazia americana dentro il gioco delle istituzioni internazionali come l'Onu. I realisti osservano che la Cina, finché è il numero due, ha interesse a negare ogni mira espansionista ed egemonica. Intanto riempie tutti quegli spazi d'influenza che l'America sta abbandonando, in Asia e altrove, poi si vedrà.

In questo quadro è abbastanza marginale proprio quel tema che invece dovrebbe essere al centro dei rapporti tra l'Occidente e la Cina: la democrazia. Bush all'inizio del suo viaggio asiatico ha fatto sì un'arringa sulle libertà a Kyoto, proponendo come il suo modello ideale per l'Asia il Giappone. Visti i pessimi rapporti tra i due paesi (esacerbati dalle visite del premier Koizumi al tempio di Tokyo dove sono commemorati alcuni criminali di guerra) non c'era modo migliore per delegittimare quel discorso agli occhi dell'intero popolo cinese. Non a caso, con un gesto di rara trasparenza, il Quotidiano del Popolo di Pechino ha pubblicato integralmente il testo di Bush. Strattonato fra gli interessi accomodanti del business e le visioni apocalittiche dei neocon, il presidente americano non s'impegna più di tanto per il cambiamento politico della Cina. La sua visione è appannata, i gesti simbolici mancano di convinzione. Eppure questa è l'unica sfida che l'Occidente può lanciare: incalzare la più grande nazione del mondo affinché la sua trasformazione in economia aperta venga completata, aggiungendo alla libertà d'impresa e alla proprietà privata anche i diritti umani, le libertà politiche, la fine della censura sulla stampa, lo Stato di diritto. È l'unica via perché l'ascesa della Cina diventi davvero, come direbbero Confucio e Hu, "armoniosa".

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