Da La Stampa del 21/11/2005

I conti in tasca

Come sprecare gli anni. Il deficit commerciale ci riporta alla crisi del ’91

di Alfredo Recanatesi

Due considerazioni sui dati più recentemente pubblicati. La prima è sulla produzione industriale. In agosto era risultata in ripresa e, sebbene si trattasse del mese meno significativo, aveva rinfocolato le speranze che il sistema economico stesse superando la lunga stagnazione per imboccare, se non proprio un boom, almeno un sentiero di più dignitosa crescita. Poi è venuto il dato di settembre che ha raffreddato gli entusiasmi non solo e non tanto perché è tornato negativo, quanto perché ha sottolineato l'anomalia agostana per confermare il trend di questi ultimi anni.

La seconda considerazione è sulla bilancia commerciale. Il saldo negativo segna il livello peggiore dal 1991. Il fatto non va considerato come una mera curiosità statistica. Quelli trascorsi da allora, infatti, non sono stati anni qualsiasi, ma hanno segnato l'arco di tempo iniziato con la crisi valutaria del 1992, dunque con la più rovinosa delle svalutazioni della lira, e dunque ancora con la più massiccia dose di droga somministrata alla competitività delle produzioni italiane.

Da questa seconda considerazione è facile evincere che l'industria manifatturiera ha perso - o sarebbe meglio dire disperso - tutto il beneficio che gli derivò da quella crisi, una crisi che il Paese ha pagato, che lanciò il Nord Est certo, ma a spese di una accentuazione della crisi del Mezzogiorno e, più in generale, del dualismo tra quanti vivono di redditi dovuti alle esportazioni e quanti - e sono i più - di quella svalutazione subirono solo le conseguenze negative.

Da queste due considerazioni si evincono facilmente due conclusioni. La prima è che il sistema produttivo ha gettato al vento questi quattordici anni nei quali avrebbe avuto tutto il tempo per strutturarsi in modo da poter sostenere i processi di liberalizzazione dei mercati e la stabilizzazione monetaria realizzata con l’istituzione della moneta unica. Seppure in termini relativi, invece, ora si ritrova nelle stesse condizioni di quattordici anni fa, con in più - ma vivaddio! - la preclusione di potersi difendere con la manovra del cambio o con forme di protezione dalla concorrenza straniera. Questo dovrebbe dare la misura di quanto complessa sia la crisi, la quale continua a essere avvertita in termini congiunturali, ovvero come perdita di competitività delle imprese, ma è ancor prima e soprattutto una crisi di reattività del sistema produttivo ai mutamenti delle condizioni interne ed esterne nelle quali deve operare. Malgrado questa evidenza, continua a prevalere un atteggiamento secondo cui questa crisi potrebbe risolversi da sé, chissà in forza di quali mutamenti rispetto agli ultimi anni passati, come se le sue cause fossero solo esterne, come se tutto dipendesse solo dalla domanda estera che, se non ci ha beneficiato finora in tempi di robusta crescita mondiale, non si vede perché potrebbe beneficiarci nel futuro. Questo per dire che nella diagnosi dei mali dei quali l'economia italiana soffre sarebbe opportuna una maggiore prudenza nel considerare i contingenti miglioramenti che possono accompagnarsi al decorso anche delle malattie più gravi e considerare piuttosto le cause della malattia stessa e, quindi, gli interventi che può richiedere per essere superata. Sono trascorsi quattordici anni nell'attesa messianica che la guarigione potesse venire con la reazione spontanea dell'organismo malato, al più sostenendola con misure fiscali e normative - costo del lavoro, precarizzazione - che, invece di avviare una guarigione, hanno solo rallentato, ma di poco, la perdita di competitività.

L'anno si avvia a chiudersi con una crescita dello 0,2%, per l'anno prossimo è messa in conto una crescita dell'1,5, che però nessun fattore oggettivo nuovo induce a ritenere credibile. Governo e forze politiche, come in un deserto dei tartari, consumano il tempo scrutando l'orizzonte nella ricerca di qualche indizio che possa annunciare una sempre più improbabile ripresa. Il ministro dell'Economia è riuscito a vedere «elementi positivi» persino nel più profondo squilibrio commerciale degli ultimi quattordici anni. Dobbiamo chiederci cosa mai dovrà accadere perché ci si renda conto che la perdita di competitività ha cause sistemiche, strutturali, che non si risolverà mai né spontaneamente, né per qualche evento esterno.

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