Da La Repubblica del 21/11/2005

Il presidente invisibile

di Federico Rampini

PECHINO - LA MISSIONE di George Bush per promuovere la libertà in Cina si è trasformata in un'avventura del celebre uomo invisibile. Mai un presidente americano in visita ufficiale a Pechino era stato vittima di un simile black-out informativo, una vera e propria beffa dei cinesi. Ieri, nel giorno decisivo in cui Bush voleva dare un senso al suo viaggio – andando in chiesa la mattina per sostenere la libertà di religione, e poi con un discorso pubblico sui diritti umani – la macchina della propaganda del padrone di casa Hu Jintao ha tolto l'audio e il video all'apparato di comunicazione della Casa Bianca.

Risultato: per molti cinesi questo vertice non c'è mai stato.

Lo staff di Bush avrebbe dovuto capirlo per tempo. Il primo segnale era arrivato una settimana fa, con la decisione del governo cinese di ridurre drasticamente i giornalisti ammessi alla conferenza stampa di Hu e Bush, al termine del loro colloquio.

L'altroieri spuntava una ulteriore novità: la «conferenza stampa» in realtà sarebbe avvenuta, per decisione del padrone di casa, senza domande. Con i giornalisti a fare scena muta, e i due presidenti liberi di leggere ciascuno la propria dichiarazione. Ma la beffa finale è arrivata ieri: anche nel formato così «ingessato», senza scomode domande dei giornalisti, la dichiarazione di Bush e quella di Hu non sono state neppure riprese dalle televisioni cinesi. Il lavoro del povero interprete che traduceva diligentemente in cinese le frasi di Bush sulla democrazia e i diritti umani è stato inutile: il suo perfetto cinese è andato in onda solo sulla Cnn. Per i telegiornali delle oltre venti reti di Stato cinesi, Bush a Pechino è stato un non-evento. I notiziari locali hanno ripreso brevemente l'immagine di George e Laura che scendevano dalla passerella dell'Air Force One, e poi li hanno mostrati quando si rimpinzavano di cibo al banchetto ufficiale. Fine della visita. In sostanza, un'abbuffata e una stretta di mano con Hu. Molto sorridente, peraltro.

Che i cinesi siano fatti così, non c'era bisogno di arrivare al 2005 per scoprirlo. Il padre di Bush, che è stato il primo rappresentante Usa a Pechino all'epoca in cui si riallacciavano le relazioni tra i due paesi, avrebbe potuto dare a George W. qualche consiglio. Per esempio, in passato le regole del gioco della comunicazione erano oggetto di lunghi e puntigliosi negoziati fra americani e cinesi, prima di ogni vertice bilaterale. Si cercava di ottenere l'impegno che almeno qualche discorso del presidente Usa - per esempio una conferenza all'università di Pechino - avvenisse in un contesto non troppo formale, e ripreso da qualche tv locale. Mai era successo che il leader della più grande potenza mondiale «sprecasse» un intero viaggio in Cina senza riuscire a fare arrivare una sillaba del suo pensiero ai cittadini di questo paese. E' segno che questa visita è stata preparata male dallo staff della Casa Bianca, troppo concentrato sui propri problemi di politica interna? Oppure che Hu Jintao, sentendo il suo interlocutore in una posizione di debolezza, ha voluto far valere il nuovo potere contrattuale della Cina rifiutando ogni concessione?

Gli stessi dubbi si sono ripetuti anche sull'altro dossier cruciale per gli americani, quello economico. La Cina è il più grosso partner commerciale degli Stati Uniti, con un avanzo di 200 miliardi di dollari negli scambi bilaterali. La banca centrale di Pechino è un ricco creditore dell'America, con 750 miliardi di dollari di riserve ufficiali. Se Bush avesse incassato ieri qualche concessione commerciale importante, avrebbe potuto far dimenticare alla sua opinione pubblica il flop della comunicazione sui diritti umani. Ma anche nel business Hu Jintao non si è mostrato eccessivamente generoso. L'unica notizia concreta del vertice è stata una commessa per l'acquisto di 70 Boeing 737, che al netto degli «sconti» valgono 4 miliardi di dollari cioè appena il 2% del deficit americano verso la Cina. Perfino Chirac e Schroeder, nelle loro ultime visite, firmarono contratti di valore superiore. Per il resto Hu Jintao ha offerto promesse che la Cina agirà per ridurre gli squilibri commerciali. Su un altro punto dolente che sta a cuore a Washington - la pirateria - Hu è stato altrettanto prodigo di promesse. Sulla rivalutazione della moneta nazionale (yuan o renmimbi), che renderebbe un po' meno competitivi i prodotti cinesi, Hu ha ripetuto quel che il suo governo e la sua banca centrale dicono da un anno, cioè che Pechino «procederà verso la riforma monetaria». L'agenzia stampa americana Associated Press ha intitolato il suo primo notiziario sul vertice in modo inequivocabile: «Bush ottiene promesse, non fatti, da Hu».

Il magazine Time in un'analisi dedicata ai rapporti Usa-Cina ricorda con evidente nostalgia i bei tempi andati, «quando la visita di un presidente americano aveva il potere di cambiare la Cina». Per essere più precisi, aveva il potere di segnalare una svolta in Cina. Per esempio lo storico vertice tra Nixon e Mao nel 1972, primo segnale dell'apertura dopo un decennio di isolamento.

O la visita di Reagan nel 1984 che segnò un consolidamento delle riforme di Deng Xiaoping verso l'economia di mercato. O quella di Clinton nel 1998 - la prima dopo il massacro di Tienanmen - che suscitò qualche speranza democratica, tanto che un gruppo di dissidenti reagì subito tentando di formare un partito d'opposizione. Oggi Pechino può permettersi di ignorare un presidente americano. Che sia per la debolezza di Bush, o perché la Cina è consapevole della sua nuova potenza, o per tutt'e due le ragioni assieme, il cambiamento è comunque notevole.

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