Da La Repubblica del 26/11/2005

Le Riforme postume del cavaliere

di Massimo Riva

E così anche il ministro Maroni sta imparando quanto è duro scendere e salire le berlusconiane scale. La "sua" riforma del Trattamento di fine rapporto (Tfr), sbandierata come pietra miliare sulla via della previdenza complementare, ha finalmente superato l'esame del Consiglio dei ministri. ma alla farisaica condizione di entrare in vigore soltanto nel 2008. Come faccia lo stesso Maroni a dichiararsi «soddisfatto» di questa decisione a futura memoria è davvero un mistero assai poco glorioso. Fino a ieri mattina il responsabile del Welfare minacciava sfracelli politici se il provvedimento non fosse stato approvato subito per far partire la riforma già dal primo gennaio 2006, data indicata come invalicabile dopo tanti sofferti rinvii. Ora ha incassato un impegno scritto sulla sabbia del tempo a venire e fa pure finta di avere vinto la partita.

Probabilmente il ministro leghista si era ringalluzzito per il successo ottenuto con il voto finale sulla devolution.

Nell'illusoria convinzione che la voce grossa da parte del Carroccio avrebbe ottenuto la medesima benevola condiscendenza dal presidente del Consiglio. Sbagliato. Con la sedicente riforma federalista, in fondo, si trattava soltanto di mettere a repentaglio l'unità sociale e amministrativa del paese, favorendo le regioni più ricche a scapito delle più povere. Quisquilie per la sensibilità politica e istituzionale di un premier come Silvio Berlusconi. Mentre con la riforma del Tfr, che tocca da vicino il mercato delle assicurazioni, entra in gioco il portafoglio del presidente del Consiglio e su questo - come ormai s'è visto ripetutamente - a Palazzo Chigi non si è disposti a mollare.

Tanto più perché, nel caso specifico, gli interessi di Silvio Berlusconi in materia sono corposi. Attraverso la sua Fininvest, infatti, egli è importante azionista della Mediolanum Assicurazioni. Una compagnia che più delle altre - perfino di un gigante come le Generali - si è data da fare con l'offerta di polizze per la previdenza complementare arrivando a controllare da sola quasi un quarto dell'intero mercato. E, quindi, una compagnia che sempre più delle altre avrebbe da temere seri contraccolpi dalla concorrenza dei fondi chiusi di natura contrattuale, come previsti dalla riforma concordata da Maroni con sindacati e imprenditori.

Certo, anche ieri mattina - come, del resto, all'atto della prima decisione di rinvio - Silvio Berlusconi è uscito dalla sala del Consiglio dei ministri, facendo un formale inchino alla labile norma sul conflitto d'interessi. Ma si è trattato di una recita penosamente ipocrita nella quale il Cavaliere ha fatto la classica parte del convitato di pietra. Primo, perché l'opposizione del premier al testo del decreto, predisposto dal ministro del Lavoro secondo l'indicazione del Parlamento, era stata già ripetutamente annunciata in pubblico e in privato. Secondo perché la trappola dilatoria contro il progetto Maroni era stata già accuratamente predisposta da un'intesa compromissoria dell'ultimo minuto fra il ministro Tremonti e il "lìder maximo" della Lega, Umberto Bossi, mentre sul suo puntuale funzionamento vigilavano comunque i fidati ministri di Forza Italia. Insomma, ancorché fuori della sala del Consiglio, Silvio Berlusconi era del tutto sicuro e tranquillo che il suo portafoglio non sarebbe stato toccato e così è stato. Alla faccia di una normativa sul conflitto d'interessi che rivela, una volta di più, la sua funzione di imbelle paravento per il tornaconto economico di un presidente del Consiglio cui è ignoto il confine fra politica e affari, fra bene pubblico e utilità privata o addirittura personale.

Si può obiettare che la contrarietà di Berlusconi al provvedimento non era un fatto solo individuale, ma rifletteva le critiche e i rilievi che l'intero mondo assicurativo muove al testo Maroni.

Già, ma ciò semmai esalta e non ridimensiona il nodo del conflitto d'interessi perché veste il premier nei panni di portavoce di una potente corporazione, le cui pur legittime finalità si riassumono nella difesa degli utili di bilancio dei propri associati e certo non dei loro attuali e futuri clienti. Anche ad altri gruppi d'interesse forse piacerebbe avere dalla propria parte niente meno che il potere di decisione di un presidente del Consiglio. Salvo che oggi in Italia possano godere di questo ingiusto privilegio soltanto coloro che si trovano in affari con il capo del governo.

Oltre a tante macerie in tema di correttezza istituzionale, la decisione del governo lascia però sul campo anche conseguenze economiche e sociali non trascurabili. Forse quella di Maroni non era la migliore delle riforme praticabili ma, entrando subito in vigore, avrebbe fatto finalmente decollare la previdenza integrativa con un duplice risultato. Primo, di offrire fin d'ora un'alternativa pensionistica per quei lavoratori che, al momento del loro ritiro, si troveranno in tasca trattamenti di quiescenza incapaci di garantire un decente tenore di vita. Secondo, di far nascere con i fondi chiusi di origine contrattuale nuovi e ricchi soggetti operativi sui mercati con riflessi importanti sulla vitalità e sullo spessore dell'intero sistema finanziario nazionale, come accade ormai da lungo tempo nei paesi di capitalismo più evoluto.

Se ne parlerà, invece, nel 2008. A chi o a che cosa servirà quest'ennesimo rinvio? Secondo uno spudorato ministro Tremonti, ai lavoratori che avranno così modo di studiare meglio la novità.

Parole davvero di cattivo gusto perché i lavoratori hanno già capito tutto quel che c'era da capire: l'ordine berlusconiano regna anche sul Tfr.

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