Da La Repubblica del 28/11/2005

La sfida democratica dell'Islam tradizionalista

I risultati del voto egiziano potrebbero anticipare un trend di tutto il mondo arabo

di Renzo Guolo

L'Egitto, là dove tutto è nato, anticipa ancora una volta il futuro. Il nodo della democrazia nel mondo islamico risulta ancora più intricato se si guarda oggi al paese nilotico, da sempre fucina incandescente dei movimenti islamisti contemporanei, neotradizionalisti e radicali. I Fratelli Musulmani sono i veri vincitori delle elezioni politiche che si stanno svolgendo in più tornate elettorali: sin qui si sono aggiudicati 76 seggi, contro i 195 del Pnd, il partito di regime. Un risultato notevole se si pensa che la Fratellanza ha presentato solo un terzo di candidati per coprire i 444 seggi dell'Assemblea Nazionale. Rinunciando a competere per la conquista della maggioranza per evitare - come ha affermato senza infingimenti Mohamed Mahdi Akef, attuale guida del gruppo - di provocare la reazione del potere. Reazione che è comunque scattata alla vigilia della seconda tornata, quando la polizia ha arrestato centinaia di attivisti del movimento e, secondo la Fratellanza, le autorità avrebbero avallato palesi brogli.

Formalmente fuori legge dal 1954, la Fratellanza è rimasta, in questi decenni, ai margini del sistema politico ma non della società egiziana. Il patto implicito che il regime ha stipulato con il gruppo dopo la dura repressione dell'era nasseriana, si è retto su uno scambio silenzioso quanto inequivocabile: al presidente di turno, Sadat o Mubarak che fosse, e al blocco sociale che li sosteneva, il potere politico; alla Fratellanza mano libera nella società. Uno scambio che garantiva al principe di turno una certa stabilità e alla Fratellanza la possibilità di praticare la propria vocazione neotradizionalista. Vocazione fondata su un progetto di reislamizzazione "dal basso" della società, imperniato sul ritorno dell'individuo a quello che viene definito "autentico islam". Un patto che la Fratellanza ha accettato, convinta che, prima o poi, la tensione tra un sistema politico dotato di scarsa legittimazione e una società sempre più reislamizzata avrebbe inevitabilmente modificato gli equilibri.

Così i Fratelli hanno preso progressivamente il controllo delle moschee di quartiere ma anche di al Azhar, massimo centro teologico dell'islam sunnita; hanno esteso la loro influenza al sistema educativo e investito capitale umano, e non solo, nelle strutture del welfare religioso. Conquistando anche il sostegno di parte importante della borghesia religiosa: come dimostra il controllo che il gruppo esercita sui più importanti ordini professionali, da quello dei medici a quello degli avvocati o degli ingegneri. Negli ultimi anni, grazie alle paraboliche, persino le televisioni sono divenute palcoscenico di importanti ulema vicini al gruppo, trasformatisi in telepredicatori dalla vertiginosa audience.

È negli interstizi di questo diffuso potere circolare che i Fratelli Musulmani hanno atteso il "momento buono", incuranti delle dure invettive lanciate nei loro confronti dai settori islamisti radicali, che periodicamente criticavano il loro attendismo e imboccavano la via senza ritorno del jihad.

Ora quel momento sembra vicino. Anche perché, sospinta dai neocon, all'epoca ancora lontani dal crepuscolo che li avvolgerà dopo l'oscura avventura della "guerra trasformatrice" in Iraq, l'amministrazione Bush ha premuto sui regimi amici perché aprissero il sistema politico, consapevole che anche il modello di contenimento egiziano nei confronti dei movimenti islamisti non garantiva più alcuna "efficienza sistemica". Mubarak si è adeguato e la Fratellanza ha imboccato, con la dovuta prudenza, la strada del sistema politico. Non sotto le proprie insegne, ma facendo comunque riecheggiare dai suoi candidati "indipendenti" lo storico slogan «L'Islam è la soluzione».

L'analisi della vicenda egiziana ci mostra sprazzi di futuro politico. Anche sul versante islamista, dove sono in corso da tempo mutamenti di egemonia tra le due anime del movimento. A favore dei neotradizionalisti.

Nonostante il jihadismo possa costituire, ancora per lungo tempo, un rilevante problema di sicurezza per l'Occidente e i paesi islamici, la sua capacità di attrazione politica non è pari né alla sua capacità militare, esaltata esponenzialmente dal carattere asimmetrico del jihad globale, né al perverso fascino che suscita tra i giovani, attratti dalla dimensione simbolica della "violenza del sacro". Il radicalismo riscuote consenso più su singole azioni ritenute "esemplari" che sul suo progetto politico complessivo. Non è così invece per i movimenti islamisti neotradizionalisti che, a torto o a ragione, sono ritenuti da una parte di società islamiche una carta spendibile.

Nei prossimi anni molte formazioni neotradizionaliste si proveranno alle urne. In Egitto, in Palestina, in Giordania, in altri Paesi. Allora l'Occidente dovrà decidere se essere davvero coerente con lo scossone che i neocon hanno comunque provocato, insufflando nel dibattito mondiale il loro bellico messianismo democratico; oppure se tornare alla più rassicurante, e cinica, pratica della realpolitik, sorvolando sul costante impulso delle classi dirigenti mediorientali a chiudere ciclicamente il sistema politico di fronte alla possibilità di una sconfitta.

Ipotesi che, come emerge dalla discussione interna allo stesso movimento neotradizionalista, quest'ultimo potrebbe neutralizzare proponendo un nuovo compromesso. Questa volta esteso alla scena internazionale. Impegnandosi a ridurre, in cambio della non ingerenza interna, la propria alterità politica negli equilibri mondiali. Accentuando il carattere islamo-nazionalista anziché globalista della sua identità.

Comunque vada, con i movimenti neotradizionalisti si dovrà fare i conti. L'Egitto pare solo il primo banco di prova.

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