Da La Stampa del 29/11/2005

Programmi elettorali

Modello danese all’italiana

di Tito Boeri

Nonostante il nostro Paese abbia una delle normative di protezione dell'impiego più restrittive dell'area Ocse, i lavoratori italiani si sentono più a rischio di perdere il posto di lavoro dei loro omologhi in quasi tutti gli altri Paesi della Ue. I lavoratori che si sentono più sicuri sono quelli danesi, dove alle imprese licenziare un lavoratore costa molto poco, più o meno come negli Stati Uniti, ma che possono fruire di un sussidio di disoccupazione che garantisce loro tre quarti del salario precedente anche tre anni dopo aver perso il lavoro. Tutti i cittadini italiani (non solo i lavoratori) avvertono in modo particolarmente drammatico l'aggravarsi della congiuntura e rivedono drasticamente al ribasso le aspettative sulla loro condizione economica futura (tagliando i consumi e così aggravando la recessione) durante le fasi avverse del ciclo, molto di più di quanto non facciano gli altri abitanti dell'area euro. Il senso di impoverimento diffuso di cui hanno dato ampio conto i giornali negli ultimi due anni trae spunto da queste ansie diffuse. Il sistema di tasse e trasferimenti italiano ridistribuisce molto meno a vantaggio dei cittadini più poveri di quanto avvenga in tutti gli altri Paesi della Ue, Grecia compresa. Il reddito del dieci per cento dei cittadini più poveri in Italia aumenta del 50 per cento dopo le tasse e i trasferimenti, contro il 200 per cento in Danimarca e il 100 per cento negli altri Paesi della Ue. Il fatto è che in Italia solo un disoccupato su cinque riceve un trasferimento dallo Stato in caso di perdita del posto di lavoro (i trattamenti che esistono sono molto generosi ma coprono una minoranza di lavoratori) e non esiste una rete di protezione sociale che protegga chi rimane senza sussidio di disoccupazione, nel caso non trovi un lavoro al termine del periodo di fruizione del sussidio. Mentre i nostri regimi di protezione dell'impiego tutelano una minoranza (circa un quarto, se contiamo anche il sommerso) di lavoratori. E spostano le esigenze di flessibilità delle imprese sui lavoratori con contratti temporanei e gli immigrati (che cambiano lavoro, in media, due volte all'anno).

Sono fatti noti da tempo e tuttavia passati indenni a diverse legislature. Perché vi sono costi politici da pagare nello spalmare le protezioni su tutti, rendendole meno vantaggiose per le categorie maggiormente rappresentate. E vi sono anche costi fiscali, perché costruire un moderno sistema di ammortizzatori sociali costa. In Danimarca si spendono ogni anno quasi tre punti e mezzo di Pil tra sussidi di disoccupazione e assistenza sociale, sette volte quanto spendiamo noi per questi strumenti. Ma diversamente da quanto viene oggi proposto come parola d’ordine per il centro-sinistra, non c'è bisogno di importare il modello danese per dotarci di un sistema più efficiente e più equo del nostro. Il modello di flexisecurity danese è peraltro pagato dal contribuente generico, mentre sarebbe più giusto che gravasse, almeno nel caso dei sussidi di disoccupazione, solo su chi ne potrà beneficiare, vale a dire lavoratori e imprese. E si presta ad abusi e «welfare shopping» da parte degli immigrati. Da noi dobbiamo costruire un sistema di sussidi di disoccupazione uguale per tutti, non circoscritto ai settori più sindacalizzati e alle grandi imprese, e pagato con i contributi di lavoratori e imprese (che dovrebbero concorrere alla spesa ancor di più quando pongono in esubero dei lavoratori). Dovremmo anche edificare una rete di protezione sociale di ultima istanza in grado di garantire un reddito minimo a chi cade tra le crepe della società. Il costo di questa riforma dovrebbe aggirarsi attorno a un punto di Pil. Si possono trovare queste risorse. Basta volerlo. Sono state ben altre le priorità in questa legislatura. Si chiamano pubblico impiego, pensioni e tagli cosmetici alle imposte sui redditi. Vedremo cosa avverrà nella prossima legislatura. Ci auguriamo di certo che nessuno voglia nuovamente scagliarsi lancia in resta contro l'articolo 18 «a costo zero», senza proporre prima di tutto di erigere migliori tutele ed estendere il grado di copertura dei nostri ammortizzatori sociali.

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