Da La Repubblica del 05/12/2005

Venezuela, il padrone è Chavez

Elezioni senza oppositori, il presidente ha in mano il paese

di Guido Rampoldi

CARACAS - Il regalo di moda in questo Natale è il chavito, un bambolotto che riproduce Hugo Chavez nell'uniforme rossa del suo movimento. Lo compra sia chi adora il presidente, perché anche i bambini imparino ad amarlo, sia chi lo odia, magari per infilzarlo con gli spilloni. Sabato sera, vigilia elettorale, un intrattenitore della tv di Stato ha mostrato alla telecamera due chavitos e ha sghignazzato: «Domani potete votare questo oppure questo». Risate e lazzi dei sei candidati chavistas che gli facevano da coro. Si ciarlava dell'opposizione, che risultava tutta «golpista e fascista», ma perché non espatria?, e dell'impero, dell'imperialismo, insomma gli Stati Uniti, che dell'opposizione sarebbero i burattinai. Seguivano le dirette da vari raduni, con fuochi pirotecnici, canzoni patriottiche o rivoluzionarie e gente in camicia rossa che ripeteva: fascisti, golpisti, imperialisti, nemici del popolo. Finché non appariva un Chavez in carne ed ossa e declamava una poesia accompagnato dalla chitarra. Poi la linea tornava in studio e si ricominciava: fascisti, golpisti, imperialisti.

Assistevi a tutto questo, poche ore prima dell'apertura dei seggi, e ti sembrava di rivedere, appena scongelata, quella sinistra sudamericana che non ha imparato nulla dai propri errori. Tenace, sgangherata, incorreggibile.

Se poi aggiungevi che a Washington c'è l'amministrazione Bush e che l'opposizione venezuelana è d'una pochezza rimarchevole, non era difficile immaginare dove conduca la somma di tante inettitudini: verso l'ennesimo disastro. Le elezioni politiche di ieri sono certamente un passo in quella direzione. I maggiori partiti dell'opposizione hanno deciso di boicottarle quando hanno scoperto che il sistema elettronico di voto permetteva di identificare ciascun elettore. Ma un compromesso tecnico era possibile e la scelta di disertare le urne semmai è stata determinata dalla paura. Preannunciavano una sconfitta umiliante sia i sondaggi sia gli umori di quell'elettorato anti-chavista che non crede né in una democrazia malmessa quanto la conferma la televisione di Stato, né in un'opposizione senza identità perché troppo eterogenea (dagli ex guerriglieri di "Bandiera rossa" all'estrema destra, dai giovani liberali alle vecchie clientele socialdemocratiche e democristiane). Così adesso Chavez non ha più il freno d'un parlamento dove finora i suoi "bolivariani" avevano i numeri per governare ma non per cambiare la Costituzione: se volesse potrebbe dare corso ai progetti più sfrenati, perfino diventare presidente a vita come già propone uno dei suoi deputati. Inoltre sparita l'opposizione dalle Camere, viene a mancare l'unica istituzione dove tentare di mediare il conflitto tra due Venezuela incapaci di trovare il senso d'una comunità nazionale e convinti che l'avversario sia lo strumento dello straniero: di Cuba, oppure degli Stati Uniti.

Nella capitale quei due Venezuela nemici ieri sono stati svegliati all'alba dalla tromba dell'adunata. Squillava da furgoni chavisti muniti d'altoparlanti e chiamava tutti a votare. Questo è un po' il tratto di Chavez, un ex colonnello dei parà che dal suo passato militare ha tratto lo stile ruvido del presidente - comandante, paternalista e unico decisore. Dunque adunata!. Ma il quartiere benestante di Chacao non ha risposto all'appello degli altoparlanti e alle undici di mattina solo quindici elettori s'erano presentati al seggio nella scuola di San Ignacio, di fronte ad un garage dov'era in corso un'affollatissima seduta di danza ritmica. In genere gli eroi di Chacao sono i generali che tentarono il golpe del 2002, e gli alti prelati che tre giorni fa erano in Vaticano per raccontare al papa quanto soffra il popolo sotto Chavez. Per la verità proprio da quel popolo che soffre la povertà o la fame, cioè il 65% dei venezuelani, proviene l'elettorato chavista. A Caracas vive nei quartieri dove si mescolano le baraccopoli precariamente aggrappate a dirupi e i flebili tentativi di urbanistica ai piedi di quelle colline.

Laggiù la tromba dell'adunata ieri ha funzionato, anche se forse meno di quanto si attendesse Chavez. A metà mattina c'era la fila davanti al seggio di «La libertad», insediamento popolare affrescato da giganteschi murales di Simon Bolivar, l'eroe dell'indipendenza, e degli incappucciati Tupamaros, gruppo ex guerrigliero e ora chavista. Quando chiedevi alle camicie rosse in cosa i sei anni di Chavez avessero cambiato le loro vite, ti parlavano innanzitutto dei Mercal. Questi sono mercati dei quartiere poveri dove chiunque può comprare a prezzo politico i generi alimentari importati dal governo. Con i seguenti risultati:

i poveri finalmente mangiano ottima carne argentina e uruguajana, i ricchi la pagano la metà (l'accesso ai Mercal è libero), e gli allevatori venezuelani sono in crisi. Nell'ordine di gratitudine a Chavez ai Mercal seguono l'assistenza sanitaria, che ha fatto un salto di qualità anche grazie ad un ingresso massiccio di medici cubani; e le scuole dove gli adulti imparano a scrivere o apprendono un mestiere. Inoltre Chavez ha dato un piccolo impulso al programma di edilizia popolare, però cominciato decenni prima, e avviato la riforma agraria, sia pure a rilento. Secondo la propaganda, questo sarebbe il socialismo bolivariano, un modello economico nuovo, rivoluzionario. Ma in questo caso dovremmo considerare bolivariana anche la nostra dc, per quanto di meritorio fece nel primo ventennio della Repubblica, e con lo stesso metodo chavista: privilegiando innanzitutto il proprio elettorato.

Inoltre è facile essere bolivariani con la propria base quando si governa il quinto produttore al mondo di petrolio in una fase in cui il barile supera i 50 dollari. Probabilmente non sarebbero stati meno generosi di Chavez quei governi socialdemocratici e democristiani la cui crisi terminale cominciò alla fine degli anni Novanta, quando il barile era a 9 dollari.

Quel che avrebbe fatto la differenza sarebbero state riforme strutturali, innanzitutto nell'amministrazione pubblica. Invece, perfino tra i chavistas di La Libertad si ammette che le amministrazioni sono rimaste identiche negli uomini e nei metodi.

Per esempio, quei settori della polizia assai temuti per rapacità e violenza. Centinaia di denunce li accusano di combattere la delinquenza comune con la tortura e l'omicidio premeditato.

Accadeva anche in passato. Ma oggi forse il clima è più favorevole. Dopotutto l'ex capo delle squadre speciali di Caracas, in realtà «squadre della morte», è un sindaco chavista e firma lo slogan «Riprendiamoci la città» dipinto su un murale a due passi dal palazzo presidenziale.

Di questa legalità a geometria variabile importava assai poco all'opposizione, finché non ha scoperto d'essere tremendamente esposta. I chavistas hanno preso il controllo della Corte suprema aumentando i membri da 20 a 32 (il presidente di quel tribunale definisce «rivoluzionaria» la giustizia che esercita). Hanno aumentato la percentuale dei magistrati con incarico temporaneo e revocabile, oggi ben il 75% del totale, così da tenere la giustizia sotto tiro. Con nuove leggi hanno spento l'aggressività delle tv private, ancora due anni fa perfino più bugiarde della tv di Stato e oggi circospette o indifferenti (rischiano multe iperboliche e cancellazioni di programmi). Hanno messo sul chi vive i giornalisti: rischiano condanne fino a 30 mesi di carcere se criticano troppo rudemente perfino un deputato o un generale dello stato maggiore, fino a 5 anni se diffondono notizie che turbano l'ordine pubblico. Nel nuovo codice il blocco stradale è punito con la detenzione da 4 a 8 anni, e secondo la Corte Suprema nulla vieta l'istituzione della censura preventiva. Reso pubblica da un sito-internet, l'elenco dei 3 milioni e mezzo di venezuelani che firmarono la petizione per il referendum contro Chavez sarebbe diventato uno strumento di discriminazione in uso presso alcune amministrazioni.

Finora il governo è ricorso raramente a queste armi affilate.

Se però verrà il momento, sono pronte. In ottobre l'amministrazione Bush ha inserito il Venezuela tra i cinque nemici degli Stati Uniti, sia pure in terza fascia. Allora Chavez ha invitato le sue Forze armate a prepararsi all'eventualità d'una «guerra asimmetrica», condotta dal nemico con «tattiche non convenzionali, come guerriglia e terrorismo». Che creda o no alla possibilità di un colpo di mano ispirato da Washington, ipotesi non inverosimile, quella prospettiva gli risulta utilissima oggi per tenere in riga il Paese, domani per fondare un autoritarismo più esplicito: se la patria è attaccata chi può protestare se il presidente arresta i traditori, sbaraglia la quinta colonna del nemico?

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