Da lavoce.info del 09/01/2006
Originale su http://www.lavoce.info/news/view.php?id=15&cms_pk=1932&from=index

Quanto lavorano gli italiani

di Leonello Tronti

Negli ultimi anni è stata più volte avanzata la tesi secondo la quale in Italia si lavora comparativamente poco. Sarebbe questo uno dei motivi fondamentali per cui l’economia è poco competitiva, e il prodotto e la produttività (nonché i salari) ristagnano. Ma è vero che in Italia si lavora poco?


GLI ORARI DEGLI ITALIANI

I dati della rilevazione europea quadriennale sulla struttura del costo del lavoro riferiti all’anno 2000, metodologicamente omogenei e pienamente comparabili tra i paesi, ci dicono che l’orario di fatto dei dipendenti del settore privato (ad esclusione dell’agricoltura) è, in Italia, pari in media a 1.694 ore l’anno: 153 ore più di quello dei francesi, 225 ore più di quello dei tedeschi, 73 più di quello degli inglesi, 60 ore più di quello degli spagnoli. Inoltre, l’orario italiano è maggiore di 143 ore l’anno rispetto alla media dei 15 paesi di più antica appartenenza all’Unione e, se confrontato con i maggiori tra i paesi di nuova accessione, risulta significativamente inferiore soltanto a quello di Polonia e Romania.

La tesi che gli orari dei dipendenti italiani siano inferiori a quelli dei loro concorrenti europei non ha dunque sostegno empirico. D’altro canto, se si guarda alle tendenze di lungo periodo dell’orario di fatto di tutti gli occupati (dipendenti e indipendenti) nei quattro maggiori paesi dell’Unione Europea, negli Stati Uniti e in Giappone (figura 1) si nota che negli anni Cinquanta e Sessanta gli orari europei erano mediamente più lunghi, ma da allora si sono ridotti in misura sostanziale. Quelli dei giapponesi, invece, hanno avuto una contrazione significativa soltanto negli anni Novanta, mentre quelli degli americani, negli stessi anni Novanta hanno registrato un certo aumento. Di conseguenza, gli orari americani hanno distanziato quelli europei sin dalla fine degli anni Settanta, e dalla fine degli anni Novanta anche quelli giapponesi: nel 2004 il vantaggio nei confronti dei primi è di circa sei settimane di 40 ore l’anno e nei confronti dei secondi di quasi due settimane l’anno.



Ma il distacco degli americani non si applica al caso italiano: gli orari medi italiani, con 1.810 ore l’anno nel 2003, sono allineati con quelli americani (1.817 ore) e significativamente superiori a quelli di Francia, Germania e Regno Unito (in media, 1.498 ore). (1)

I dati medi vanno però interpretati con cautela, perché rappresentano mercati del lavoro caratterizzati da strutture profondamente diverse. Il principale motivo di divergenza del mercato del lavoro italiano sta nelle sue modeste dimensioni relative.

Se si guarda alla popolazione in età di lavoro (convenzionalmente compresa tra i 15 e i 64 anni d’età), in Italia lavorano 5,8 persone su 10: mentre nella media dell’Unione a 25 a lavorare sono 6,3 persone, in quella dell’Unione a 15 6,5, in Giappone 6,9, negli Stati Uniti 7,1, nel Regno Unito 7,2, in Danimarca 7,6.

Il divario è spiegato quasi completamente dalle differenze nell’occupazione delle donne, mentre tra gli uomini le differenze sono più contenute.


IL DILEMMA ORARI-OCCUPAZIONE

La limitata dimensione del mercato del lavoro apporta, quindi, una sostanziale correzione all’immagine dei "lunghi orari" degli italiani: se è vero che i lavoratori italiani sono impegnati dal lavoro retribuito, in media, per una quota maggiore dell’anno, è però altrettanto vero che a sostenere questo impegno sono relativamente in pochi, particolarmente tra le donne. Le ridotte dimensioni del mercato del lavoro femminile, peraltro, contribuiscono a definire i contorni dell’impegno lavorativo degli italiani anche per un secondo aspetto: quello della ancora scarsa diffusione degli impieghi a tempo parziale.

Se prendiamo i "giovani" (maschi e femmine tra i 15 e i 39 anni), il lavoro part-time impegna in Italia il 14,5 per cento dell’occupazione totale, contro il 16,8 in Francia, il 24,2 nel Regno Unito, il 46,8 per cento in Olanda. Tra le donne, la quota raddoppia al 28,2 per cento, ma cresce anche la distanza dal Regno Unito (39,3) e soprattutto dall’Olanda, dove più del 70 per cento delle donne "giovani" si occupa in impieghi a tempo parziale. Inoltre, mentre negli altri paesi per le donne nelle età più avanzate la quota degli impieghi a orario ridotto cresce, in Italia, anche in relazione con la tardiva introduzione del part-time nel nostro ordinamento, diminuisce.

A prolungare gli orari c’è poi la circostanza che in Italia l’orario effettivo dei lavoratori part-time è mediamente più lungo: 20,7 ore la settimana, contro 19,3 nell’Unione a 15, 19,1 in Olanda, 18,6 nel Regno Unito, 17,4 in Germania. (2) E non va dimenticato che il mercato del lavoro italiano si caratterizza anche per dimensioni medie di impresa molto ridotte e, quindi, per una presenza eccezionalmente elevata di lavoratori autonomi, i quali usualmente prestano orari di lavoro prolungati. (3)



Lo scambio tra orari e occupazione, tuttavia, non è una particolarità italiana, ma una regolarità delle economie avanzate. La figura 2 mostra che, seppure con oscillazioni significative, la nuvola dei punti orari annui-tasso di occupazione di 15 paesi europei più la Turchia, gli Stati Uniti e il Giappone mostra un generale orientamento negativo: segnala che, nella media, i paesi con tassi di occupazione più elevati hanno orari più brevi e quelli con tassi più contenuti orari più lunghi. Suddividendo la figura in quattro quadranti mediante l’introduzione di due assi che rappresentano i valori medi dei due indicatori, i diversi paesi mostrano le loro affinità nella modalità di risoluzione del dilemma orari-occupazione. Spagna, Italia, Grecia e Turchia cadono nel quadrante del modello occupazionale "mediterraneo", dei paesi con orari lunghi e bassa occupazione, mentre Irlanda, Portogallo, Finlandia, Giappone e Stati Uniti si collocano in quello del modello "iperattivo", al quale si iscrivono i paesi con alta occupazione e orari lunghi. Regno Unito, Austria, Svezia, Danimarca, Norvegia e Olanda si caratterizzano per l’adozione di una soluzione "nordica" del dilemma orari-occupazione, in cui l’alta occupazione si coniuga con orari di lavoro mediamente brevi (soprattutto grazie all’ampia diffusione del part-time). Infine, Belgio, Germania e Francia si posizionano nel quadrante dei paesi "continentali" (relativamente "poco attivi"), con bassa occupazione e orari brevi, dove si colloca anche la media dei 15 paesi che per primi hanno aderito all’Unione Europea.


ATTIVISMO E "MARKETIZATION"

Le ragioni per cui alcuni paesi sono caratterizzati da un rilevante "attivismo" trovano origine nelle profonde diversità dei modelli di offerta di lavoro e di consumo nella famiglia. In particolare, le statistiche segnalano che le donne lavorano, per il mercato o per lo Stato, molto di più negli Stati Uniti che nella maggioranza dei paesi europei.

Richard Freeman e Ronald Schettkat in alcuni lavori basati su di un database omogeneo sui mercati del lavoro americano e tedesco, con informazioni dettagliate sull’uso del tempo, mostrano che il rilevante gap occupazionale Usa-Germania non è legato in misura determinante ai livelli del salario o degli ammortizzatori sociali (come la teoria economica standard suggerirebbe) ma, invece, è fondamentalmente causato dalla diversa estensione del mercato (marketization) ad alcune delle attività svolte in misura prevalente dalle donne. Se, oltre alle ore impegnate nella produzione per il mercato, si tiene conto anche di quelle assorbite dalle attività di cura della casa o dei familiari, il numero di ore lavorate in Germania, in particolare dalle donne, è del tutto equivalente a quello degli Usa, in particolare dalle americane. Ad esempio, in Germania si dedica molto più tempo alla preparazione dei pasti, mentre negli Stati Uniti si consumano cibi pronti e servizi di ristorazione in modo significativamente più intenso, dando con ciò lavoro a molte più persone, spesso di sesso femminile, in quel settore. Il grado di estensione del mercato alle attività che sostituiscono il lavoro di cura non retribuito dipende a sua volta, in misura determinante, dalle modalità di organizzazione di alcune attività sociali (ad esempio la scuola) e dalla dispersione degli skill tra i lavoratori, come anche dai differenziali salariali.

Tra i paesi europei esistono, su scala diversa, differenze analoghe a quelle che si riscontrano tra gli Stati Uniti e la Germania: le differenze nel tempo dedicato al lavoro totale (retribuito e familiare) sono relativamente contenute, mentre il peso delle due componenti varia sensibilmente. (4) E i diversi modelli occupazionali scontano in larga misura la diversa marketization delle attività sostitutive a quelle di cura esercitate nell’ambito della sfera domestica, in prevalenza affidate alle donne.

Un secondo, fondamentale, elemento di discrimine è se la marketization è caratterizzata in misura prevalente da canali di offerta privati, come avviene nel mondo anglosassone, o invece da strutture pubbliche o comunque operanti in regime semi-pubblico, come è il caso nella maggioranza dei paesi nordici.

Una misura sintetica di quanto orari e occupazione tendano a compensarsi è offerta dal rapporto tra il totale delle ore lavorate in un anno e la popolazione in età di lavoro. Questo indicatore consente di valutare la durata del lavoro retribuito prestato in media, in un anno, non dai soli lavoratori dipendenti, e nemmeno dall’insieme degli occupati, ma da tutta l’"offerta potenziale di lavoro".

La figura 3, che mostra la graduatoria di questo indicatore, ci offre alcune conferme, ma anche risultati inattesi. Viene ad esempio confermato che l’impegno lavorativo più intenso (più di 1.200 ore pro capite l’anno) è espresso da alcuni paesi "iperattivi", in particolare da Giappone e Stati Uniti, seguiti, con valori molto vicini tra loro (tra 1.150 e 1.200 ore), da un gruppetto formato da Finlandia e Portogallo ("iperattivi") da un lato e Svezia ("nordica" con orari relativamente lunghi) dall’altro. Il successivo terzetto omogeneo (più di 1.130 ore), formato da due paesi "mediterranei" (Grecia e Spagna) e da un paese "nordico" (Danimarca), smentisce la convinzione che l’adozione di modelli orari-occupazione fondati su bassi tassi di occupazione non possano esprimere livelli di impegno lavorativo sostanzialmente analoghi a quelli di modelli caratterizzati (come quello danese) da una diffusissima partecipazione al lavoro. Ma la sorpresa forse maggiore ci viene riservata dal gruppo centrale (circa 1.020 ore) che, oltre a includere come prevedibile la media dell’Unione a 15, annovera l’Italia ("mediterranea"), l’Olanda ("nordica" e leader nella diffusione del part-time) e l’Austria ("nordica" anch’essa, ai confini con il modello "continentale"). Paesi dell’Unione che hanno scelto soluzioni del dilemma orari-occupazione diametrali – l’Italia tutta spostata sul tempo pieno e gli orari lunghi, l’Olanda caratterizzata da un alto tasso di occupazione ottenuto attraverso una diffusione record del part-time – finiscono per esprimere un livello di impegno lavorativo del tutto comparabile.



Ora possiamo dunque formulare una risposta più circostanziata e completa alla domanda iniziale. Gli italiani che lavorano per una remunerazione lo fanno con orari più lunghi della media degli europei e più vicini al valore degli Stati Uniti. Il basso tasso di occupazione soprattutto femminile, però, fa sì che il vantaggio italiano si riduca sensibilmente una volta che venga valutato nei termini dell’impegno lavorativo espresso nel suo complesso dalla popolazione in età di lavoro. Tuttavia, anche in questo caso il valore italiano resta superiore sia a quello della media dei 15 paesi dell’Unione Europea, sia a quello dei nostri partner "continentali" (Belgio, Francia, Germania) e si dimostra analogo a quello della "miracolosa" Olanda. Infine, il modello occupazionale "mediterraneo", nella versione offerta oltre che dall’Italia, anche da Spagna e Grecia, si dimostra in grado di esprimere un livello elevato di impegno nel lavoro retribuito, nell’insieme superiore a quello della media dei tre maggiori paesi dell’Unione (Regno Unito, Germania e Francia).

Di conseguenza, seppure appare legittimo, anche se non particolarmente urgente, che ci si proponga di accrescere l’impegno lavorativo degli italiani nel mercato dei beni e dei servizi, lo strumento per raggiungere questo risultato non può essere quello della riduzione dei giorni di ferie, ma esclusivamente quello dell’aumento dei posti di lavoro.
Annotazioni − * L'autore è dirigente di ricerca dell'Istat. L'articolo e le opinioni in esso contenute sono presentate dall'autore a titolo personale e non sono pertanto attribuibili all'ente dove lavora.


PER SAPERNE DI PIÙ

Eurostat, (2004) Long-term indicators, (2005a) Structural Indicators e (2005b) Population and Social Conditions, I-2005. Tutti scaricabili dal sito http://epp.eurostat.cec.eu.int/.

Freeman R.B. and Schettkat R., 2002, "Marketization of Production and the US-Europe Employment Gap", Nber Working Papers, n. 8797, Cambridge (Mass.), National Bureau of Economic Research.

Ggdc- Groningen Growth and Development Centre and The Conference Board, 2005, Total Economy Database, August 2005, http://www.ggdc.net.

Istat, 2004, "La struttura del costo del lavoro in Italia e nella UE", "Tavole di dati", http://www.istat.it/dati/dataset/20041015_00/ .

Istat, 2005, "Le ore lavorate per la produzione del Pil: una prima stima dal 1993 al 2003", "Statistiche in breve", 22 aprile, http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20050422_01/.

Sabbadini L.L., 2005, "L’uso del tempo in Italia e in Europa: primi risultati del processo di armonizzazione", http://www.istat.it/istat/eventi/tempivitaquotidiana/.


NOTE

(1) Poiché si riferisce a tutte le ore di lavoro impiegate nella produzione del Pil, il dato italiano comprende, oltre a quelle dei lavoratori indipendenti, le ore lavorate sia nei doppi lavori che nelle altre posizioni irregolari. Questo dato, comunque, risulta pienamente comparabile con quello rilevato dalla nuova indagine continua sulle forze di lavoro che registra, per il 2004, un valore medio di 1.813 ore.

(2) Tra i dipendenti, l’orario medio dei part-timers italiani è superiore a quello di tedeschi e inglesi e della media dell’Unione Europea a 15, ma inferiore a quello di francesi e spagnoli (Istat, 2004).

(3) Non vanno dimenticati, ovviamente, anche gli effetti della composizione delle imprese per settore e dimensione: industria e costruzioni hanno orari mediamente più lunghi dei servizi; le piccole imprese orari più lunghi delle grandi. L’Italia, ancora sottoterziarizzata e caratterizzata da piccole e piccolissime imprese, ha una struttura produttiva che favorisce gli orari lunghi.

(4) L’indagine europea sull’uso del tempo 2002-2003, ad esempio, mostra che per le donne il tempo di lavoro totale (lavoro retribuito, studio e lavoro familiare) varia tra le 7h56’ della Slovenia e le 6h16’ della Germania, con l’Italia a 7h26’. Ma il peso del lavoro familiare su questo aggregato varia dal 71,7% dell’Italia (5h20’) al 53,6% della Svezia (3h42’) (Sabbadini, 2005).

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