Da Punto Informatico del 15/02/2006
Originale su http://www.punto-informatico.it/p.asp?i=57883

Censura, Pechino soccorre Yahoo!

Il motore di ricerca californiano chiede aiuto al mondo: aiutateci ad agire eticamente. Washington attacca: siete il megafono della propaganda comunista. Pechino: o così o fuori dal paese. Militanti tibetani, intanto, attaccano Google

Washington (USA) - Una incessante pioggia di polemiche continua a battere sulle aziende statunitensi che collaborano con il regime cinese e Yahoo! è nell'occhio del ciclone. Colpevole di aver contribuito all'arresto di un dissidente, l'azienda di Sunnyvale è ora alle strette: bersagliata dalla stampa, accusata dai sostenitori delle libertà digitali e persino al centro di un caso politico-diplomatico.

Il motore di ricerca è quindi nei guai e non sembra capace di uscire dal pantano. I portavoce del motore di ricerca, in vista di uno scontro frontale con il parlamento di Washington DC, hanno tentato di gettare acqua sul fuoco richiamando l'attenzione del governo americano.

"Vogliamo essere i protagonisti del dialogo e dell'apertura", sostiene Mary Osako di Yahoo Hong Kong, "e siamo profondamente preoccupati da qualsiasi paese che impone leggi per il controllo dei mezzi di comunicazione digitali". "Siamo convinti che la presenza di compagnie come la nostra", aggiunge Osako, "possa innescare un cambiamento verso maggiori libertà".

Parole che tuttavia non convincono affatto i politici americani. "Non basta fare bei discorsi", sostiene Tom Lantos, membro della commissione per gli affari internazionali del parlamento federale statunitense, "ed una dichiarazione d'intenti non è abbastanza: Yahoo collabora e si sottomette alle forze di polizia di un regime illiberale". "Alla luce dei fatti", rincara la dose il deputato Christopher Smith, "Yahoo! e tutte le altre aziende coinvolte nello scandalo sono un megafono per la propaganda comunista e stanno facendo il loro meglio per evitare l'apertura della Cina, aiutandola nel suo forte rifiuto della democrazia".

Con tutta questa attenzione sulla questione censura, il regime pechinese ha deciso di intervenire. Il portavoce del ministero degli Esteri, Liu Jianchao, ha infatti dichiarato che "il governo cinese ha adottato misure di sorveglianza per limitare contenuti immorali e dannosi... lo scopo è salvaguardare l'interesse del popolo. Per quelle aziende straniere, se vogliono operare in Cina dovranno rispettare la legge cinese".

Ma le polemiche non si fermano. A Dharmasala, in India, sede del governo tibetano in esilio, centinaia di militanti tibetani hanno protestato contro Google e la sua decisione di aprire Google.cn rispettando i dettami censori. Riprendendo anche il tema della campagna anti-Google già lanciata in Europa, i protestatari hanno lanciato slogan come "Gulag, censurare il search con il search" o "Google, don't be evil", quest'ultimo un riferimento diretto alla "filosofia" dell'azienda, che si dichiara, appunto, non "evil", ossia non "diabolica".

La protesta tibetana ora continua via email con segnalazioni e appelli trasmessi dai militanti ai propri contatti in giro per il mondo, suggerendo di non accedere a Google in forma di protesta il prossimo martedì. Nel frattempo alcuni siti tibetani hanno auto-sospeso temporaneamente le proprie home page, rimpiazzandole con accuse a BigG. "Amavamo Google - ha dichiarato a Reuters Tenzin Tsundue, segretario generale dell'associazione "Amici del Tibet" - ora ci sentiamo traditi".

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