Da L'Espresso del 26/02/2006
Originale su http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?m1s=null&m2s=m...
Quando buddhista fa rima con razzista
Centomila profughi cacciati dal Bhutan perché induisti e di sangue "non puro". E rinchiusi in una città lager. Reportage su un caso di pulizia etnica quasi sconosciuto in Occidente
di Alessandro Gilioli
Damak (Nepal orientale) - Il campo profughi di Beldangi è una distesa di fango e di filo spinato dove vivono, se questo è vivere, quasi 20 mila persone. Uomini, vecchi, donne e bambini, in sei o sette per stanza, accatastati l'uno sull'altro nelle baracche di paglia e bambù senza luce né acqua. Quando è tempo di monsone si combatte per un cellophane o una tela cerata, ma la melma sale comunque a inghiottire ogni casa e ogni cosa, compresi i piedi fino al polpaccio.
Gli abitanti di Beldangi sono bhutanesi etnicamente non puri per questo cacciati, 15-20 anni fa, dal piccolo regno himalayano. Sono da allora prigionieri di un sogno, quello di tornare nel proprio paese, e di un incubo, quello che vedono ogni mattina quando aprono gli occhi e per loro inizia un altro giorno uguale agli altri di caldo insopportabile, di assurda detenzione, di attesa senza speranza.
Come Beldangi, altri sei campi profughi punteggiano la pianura aquitrinosa del Nepal orientale. Messi insieme, fanno una città di oltre 100 mila abitanti, tutti scappati o deportati tra la fine degli anni '80 e i primi '90, quando in Bhutan ha preso il via una gigantesca e misconosciuta operazione di pulizia etnica voluta dal regime di Thimphu per preservare la purezza delle proprie tradizioni buddhiste e del proprio sangue tibetano. A pagare è stata la minoranza di origine nepalese e di credo induista, figli e nipoti di quei contadini emigrati decenni prima - alcuni già nell'800 - in cerca di terre fertili da coltivare.
I Lotshampas, come vengono chiamati, hanno vissuto per generazioni nelle piane meridionali del Bhutan senza instaurare rapporti con la gente delle montagne, i Drukpas, padroni del paese, a cui le paludi non interessavano proprio. Le due comunità hanno continuato a ignorarsi felicemente fino a quando una ventina d'anni fa il governo di Thimpu si è accorto che i "nepalesi" a fondo valle erano aumentati un po' troppo, vuoi per riproduzione vuoi per nuova immigrazione, fino a costituire un terzo della popolazione totale. Spaventati dal rischio di una contaminazione, i bhutanesi del nord si sono inventati un paio di leggi capestro imponendo ai Lotshampas di abbandonare i loro usi, la loro lingua e la loro religione. Ne sono seguite infinite discriminazioni, minacce, violenze, scontri di piazza. Fino alle deportazioni forzate e alla nascita, appena al di là del confine nepalese, di questa città di capanne dispersa tra i banani del Terai.
Per arrivare a Beldangi, il campo più grande, si parte da Damak, cittadina di confine semi-assediata dalla guerriglia maoista. Un paio di posti di blocco dell'esercito, poi tra le risaie appaiono i rotoli di filo spinato: più che a impedire l'accesso, servono per togliere ai rifugiati la voglia di scappare e tentare il ritorno nel loro paese. Poche settimane fa, ad esempio, ci hanno provato in più di 300: intere famiglie, anche con bimbi piccoli, che all'imbrunire hanno trovato un varco nel recinto e hanno iniziato un'improbabile fuga a piedi verso la patria perduta. Li hanno ripresi poche ore dopo, al confine, e riportati nel loro inferno con i camion della Nepali Royal Army. A mezzanotte erano tutti di nuovo dentro il filo spinato. «Sapevamo di non avere chance», racconta Atti Maya Rai, 34 anni: «Ma qualcosa dovevamo tentare. E poi in galera non ci possono mettere: ci siamo già».
Ogni campo ha un segretario, una specie di leader locale che tratta con le autorità nepalesi, con l'Onu, con la Caritas, con la Croce rossa e con chiunque capiti da queste parti. Il capo di Beldangi si chiama Chhabilal Thapa, ha 42 anni ed è qui dal '90, dopo essere stato cacciato dal distretto di Jonkar, dove faceva il veterinario. «Mi avevano messo nell'elenco degli "antinazionali", una lista di proscrizione con i nomi di chi aveva partecipato ai cortei contro le discriminazioni razziali», racconta: «L'etichetta di antinazionale voleva dire perdere il lavoro, subire continue angherie dai soldati, rischiare ogni notte di essere portato via con la forza. Sono scappato a piedi, come tutti, lasciando tutto lassù». Adesso Chhabilal si occupa di mandare avanti la sua città di fango stando attaccato al telefono perché manca sempre qualcosa, una ragazza deve partorire, un vecchio è fuggito di notte, è scoppiata una rissa durante la distribuzione dei generi di sopravvivenza...
L'acqua viene fornita ogni mattina dalle 5 alle 7: non nelle capanne, ovviamente, ma alle pompe manuali distribuite in diversi punti del campo. La coda è lunga fin dalle tre, quando è ancora tutto buio e si sente solo l'abbaiare dei cani lontano. Il cibo arriva una volta la settimana, gentile omaggio delle Nazioni Unite: per ogni abitante ci sono 240 grammi di riso al giorno, 300 grammi di patate a settimana e altrettanti di verdura, 800 grammi di farina ogni 15 giorni. Una volta al mese arriva anche una saponetta a testa. Fine. Niente carne, niente latte, nemmeno per i neonati. Le latrine comuni sono piccoli loculi disposti in fila con un buco scavato per terra. L'assenza di acqua corrente e di rete fognaria non sembra turbare più di tanto il popolo di Beldangi, preoccupato invece perché «l'Onu manda sempre meno cherosene» e qui con il cherosene si cucina il riso e si illuminano le capanne di notte, visto che i fili dell'elettricità si fermano a Damak, cinque chilometri più in là. Quando il prezzo del carburante in Nepal è triplicato per la crisi economica, i donatori esteri hanno spedito qualche centinaio di specchi ustori, grossi ombrelli d'acciaio che dovrebbero cuocere il cibo, ma ovviamente funzionano solo quando non ci sono nuvole, molti sono già rovesciati e abbandonati a pochi metri dal filo spinato.
Quello che rende ancora meno sopportabile l'esistenza a Beldangi è l'ingorgo di corpi umani, di cose e di fango a cui tutti sono costretti, in un'assenza di spazio che è tortura quotidiana specie nei vicoli, ridotti nei giorni di pioggia a rigagnoli affollati e puzzolenti. «E pensare che in Bhutan io avevo dieci acri di terra tutta mia», sussurra Dil Bahadur Karki, vecchio contadino magrissimo e vestito di stracci che esibisce orgoglioso un liso passaporto del paese che non lo vuole più. «Quando hanno imposto le leggi razziali», racconta, «i soldati hanno preso a venire nella mia fattoria a razziare, insultare e minacciare. Io non reagivo e lasciavo perdere. Ma una notte, nel '91, sono venuti in tanti e hanno violentato mia figlia. Allora siamo scappati». Dil prende il fiato, accenna un sorriso: «Prima o poi tornerò. Il Bhutan è la mia terra».
La questione dei campi e dei beni sequestrati è ancor oggi il primo motivo di rabbia tra gli anziani di Beldangi, nonché uno degli ostacoli più insormontabili nelle infinite trattative tra il governo del Bhutan, quello del Nepal e l'Onu per tentare di far rientrare almeno una minima parte dei rifugiati. Una commissione bilaterale ogni tanto arriva qui e tenta di fare un censimento per verificare il grado di "autenticità bhutanese" dei profughi, con risultati spesso paradossali. Secondo il governo di Thimphu, solo il 5 per cento degli oltre 100 mila rifugiati dell'area avrebbe dei requisiti di nazionalità validi, cioè la prova provata di aver vissuto in Bhutan da prima del 1958. Tutti gli altri (contadini analfabeti che non hanno mai avuto in tasca un documento) sarebbero immigrati successivi se non addirittura impostori, cioè nepalesi poveri che si sono introdotti nei campi per godere degli aiuti in cibo dell'Onu.
Una spiegazione surreale che pure viene offerta con naturalezza, insieme alla grossolana bugia diffusa dalla Bbs - la tv di Stato del Bhutan - secondo cui all'interno dei campi i profughi riceverebbero dall'Onu tre dollari al giorno a testa, cioè uno stipendio superiore a quello di molta gente in Nepal. In realtà i profughi non vedono un centesimo e l'unico modo con cui possono migliorare le proprie condizioni di vita è inventarsi un mestiere da svolgere nella loro semi-prigionia, visto che uscire è vietato. Così c'è chi fila la lana per tessere cappelli, chi lavora una modestissima pasta d'argento per creare rozzi ornamenti, chi approfitta di una capanna caduta per coltivare insalata nel fazzoletto di terra libero. Il cappellaio, Narpati Phayel, 49 anni che sembrano 70, in Bhutan faceva l'impiegato dello Stato, posizione di discreto prestigio. Lui non avrebbe avuto problemi a uniformarsi alla Legge sulla Correttezza Culturale, quella che imponeva l'abito tradizionale dei Drukpa a tutti i funzionari pubblici, ma un giorno l'hanno licenziato lo stesso. Senza lavoro, minacciato e insultato per strada, è arrivato qui a piedi e in autobus con tutta la famiglia: in media finisce un cappello in due giorni, lo vende a 65 rupie nepalesi, a conti fatti guadagna mezzo dollaro al giorno.
Al di là della povertà, spiegano i giovani di Beldangi, è la frustrazione ad avvelenare gli animi di chi vorrebbe soltanto un'esistenza normale. Con questa utopia nel cuore, all'interno del campo hanno costruito una specie di ospedale, un paio di templi per pregare, perfino una scuola dove tutti, dai maestri ai custodi, sono rifugiati Lotshampas. Gli alunni sono venuti al mondo qui dentro e del mondo non hanno mai visto altro che queste capanne. I quaderni li fornisce la Caritas e i corsi sono parificati a quelli di chi sta fuori, in Nepal. Ma il problema è che anche quando si arriva a un titolo di studio e si parla un inglese decente, per i rifugiati è impossibile avere il permesso di lavoro - né in Nepal, né in India né tanto meno in Bhutan - perché non si ha alcun passaporto valido. Si resterà tutta la vita senza patria e abusivi.
Anche per questo i ragazzi dei campi vengono sedotti in numero crescente dalle sirene della guerriglia maoista: i seguaci del "compagno Prachanda", che combattono da dieci anni sulle montagne a pochi passi da qui per rovesciare il re del Nepal, non chiedono documenti a nessuno e sanno incanalare benissimo la rabbia di questi emarginati totali nei loro miti rivoluzionari. Gli ex profughi finiti col fazzoletto rosso a combattere sono già centinaia. Altri ragazzi fuggono di notte per darsi a una vita randagia e illegale al confine tra India e Nepal: contrabbando, prostituzione, traffico di armi e di droga, insomma sempre meglio che prigionieri senza colpa a Beldangi.
Il Nepal, che ospita i rifugiati ma vorrebbe tanto vederli tornare a casa, è ovviamente assai teso per questa crescente illegalità. Qualcuno nel paese pensa a una politica di riassorbimento graduale dei profughi nella società civile, ma sono gli stessi rifugiati a continuare a rivendicare la propria identità e a non rinunciare all'idea di tornare un giorno in Bhutan. Probabilmente ignorano che nella loro patria d'origine in questi ultimi 15 anni la cultura della supremazia Drukpa ha fatto passi da gigante. Nei pomposi discorsi sul progresso e sulla democrazia che ogni tanto pronuncia il re Jigme Singye Wangchuck non c'è nemmeno un accenno a questi ex compatrioti ripudiati, e nuove norme scoraggiano i bhutanesi doc a mescolarsi con gli altri popoli dell'area. Ben agghindati nelle loro linde vesti tradizionali, orgogliosi della propria purezza etnica, entusiasti della loro ritrovata specificità buddhista, i notabili di Thimphu e dintorni non hanno la minima intenzione di far tornare mai più i profughi a casa.
Gli abitanti di Beldangi sono bhutanesi etnicamente non puri per questo cacciati, 15-20 anni fa, dal piccolo regno himalayano. Sono da allora prigionieri di un sogno, quello di tornare nel proprio paese, e di un incubo, quello che vedono ogni mattina quando aprono gli occhi e per loro inizia un altro giorno uguale agli altri di caldo insopportabile, di assurda detenzione, di attesa senza speranza.
Come Beldangi, altri sei campi profughi punteggiano la pianura aquitrinosa del Nepal orientale. Messi insieme, fanno una città di oltre 100 mila abitanti, tutti scappati o deportati tra la fine degli anni '80 e i primi '90, quando in Bhutan ha preso il via una gigantesca e misconosciuta operazione di pulizia etnica voluta dal regime di Thimphu per preservare la purezza delle proprie tradizioni buddhiste e del proprio sangue tibetano. A pagare è stata la minoranza di origine nepalese e di credo induista, figli e nipoti di quei contadini emigrati decenni prima - alcuni già nell'800 - in cerca di terre fertili da coltivare.
I Lotshampas, come vengono chiamati, hanno vissuto per generazioni nelle piane meridionali del Bhutan senza instaurare rapporti con la gente delle montagne, i Drukpas, padroni del paese, a cui le paludi non interessavano proprio. Le due comunità hanno continuato a ignorarsi felicemente fino a quando una ventina d'anni fa il governo di Thimpu si è accorto che i "nepalesi" a fondo valle erano aumentati un po' troppo, vuoi per riproduzione vuoi per nuova immigrazione, fino a costituire un terzo della popolazione totale. Spaventati dal rischio di una contaminazione, i bhutanesi del nord si sono inventati un paio di leggi capestro imponendo ai Lotshampas di abbandonare i loro usi, la loro lingua e la loro religione. Ne sono seguite infinite discriminazioni, minacce, violenze, scontri di piazza. Fino alle deportazioni forzate e alla nascita, appena al di là del confine nepalese, di questa città di capanne dispersa tra i banani del Terai.
Per arrivare a Beldangi, il campo più grande, si parte da Damak, cittadina di confine semi-assediata dalla guerriglia maoista. Un paio di posti di blocco dell'esercito, poi tra le risaie appaiono i rotoli di filo spinato: più che a impedire l'accesso, servono per togliere ai rifugiati la voglia di scappare e tentare il ritorno nel loro paese. Poche settimane fa, ad esempio, ci hanno provato in più di 300: intere famiglie, anche con bimbi piccoli, che all'imbrunire hanno trovato un varco nel recinto e hanno iniziato un'improbabile fuga a piedi verso la patria perduta. Li hanno ripresi poche ore dopo, al confine, e riportati nel loro inferno con i camion della Nepali Royal Army. A mezzanotte erano tutti di nuovo dentro il filo spinato. «Sapevamo di non avere chance», racconta Atti Maya Rai, 34 anni: «Ma qualcosa dovevamo tentare. E poi in galera non ci possono mettere: ci siamo già».
Ogni campo ha un segretario, una specie di leader locale che tratta con le autorità nepalesi, con l'Onu, con la Caritas, con la Croce rossa e con chiunque capiti da queste parti. Il capo di Beldangi si chiama Chhabilal Thapa, ha 42 anni ed è qui dal '90, dopo essere stato cacciato dal distretto di Jonkar, dove faceva il veterinario. «Mi avevano messo nell'elenco degli "antinazionali", una lista di proscrizione con i nomi di chi aveva partecipato ai cortei contro le discriminazioni razziali», racconta: «L'etichetta di antinazionale voleva dire perdere il lavoro, subire continue angherie dai soldati, rischiare ogni notte di essere portato via con la forza. Sono scappato a piedi, come tutti, lasciando tutto lassù». Adesso Chhabilal si occupa di mandare avanti la sua città di fango stando attaccato al telefono perché manca sempre qualcosa, una ragazza deve partorire, un vecchio è fuggito di notte, è scoppiata una rissa durante la distribuzione dei generi di sopravvivenza...
L'acqua viene fornita ogni mattina dalle 5 alle 7: non nelle capanne, ovviamente, ma alle pompe manuali distribuite in diversi punti del campo. La coda è lunga fin dalle tre, quando è ancora tutto buio e si sente solo l'abbaiare dei cani lontano. Il cibo arriva una volta la settimana, gentile omaggio delle Nazioni Unite: per ogni abitante ci sono 240 grammi di riso al giorno, 300 grammi di patate a settimana e altrettanti di verdura, 800 grammi di farina ogni 15 giorni. Una volta al mese arriva anche una saponetta a testa. Fine. Niente carne, niente latte, nemmeno per i neonati. Le latrine comuni sono piccoli loculi disposti in fila con un buco scavato per terra. L'assenza di acqua corrente e di rete fognaria non sembra turbare più di tanto il popolo di Beldangi, preoccupato invece perché «l'Onu manda sempre meno cherosene» e qui con il cherosene si cucina il riso e si illuminano le capanne di notte, visto che i fili dell'elettricità si fermano a Damak, cinque chilometri più in là. Quando il prezzo del carburante in Nepal è triplicato per la crisi economica, i donatori esteri hanno spedito qualche centinaio di specchi ustori, grossi ombrelli d'acciaio che dovrebbero cuocere il cibo, ma ovviamente funzionano solo quando non ci sono nuvole, molti sono già rovesciati e abbandonati a pochi metri dal filo spinato.
Quello che rende ancora meno sopportabile l'esistenza a Beldangi è l'ingorgo di corpi umani, di cose e di fango a cui tutti sono costretti, in un'assenza di spazio che è tortura quotidiana specie nei vicoli, ridotti nei giorni di pioggia a rigagnoli affollati e puzzolenti. «E pensare che in Bhutan io avevo dieci acri di terra tutta mia», sussurra Dil Bahadur Karki, vecchio contadino magrissimo e vestito di stracci che esibisce orgoglioso un liso passaporto del paese che non lo vuole più. «Quando hanno imposto le leggi razziali», racconta, «i soldati hanno preso a venire nella mia fattoria a razziare, insultare e minacciare. Io non reagivo e lasciavo perdere. Ma una notte, nel '91, sono venuti in tanti e hanno violentato mia figlia. Allora siamo scappati». Dil prende il fiato, accenna un sorriso: «Prima o poi tornerò. Il Bhutan è la mia terra».
La questione dei campi e dei beni sequestrati è ancor oggi il primo motivo di rabbia tra gli anziani di Beldangi, nonché uno degli ostacoli più insormontabili nelle infinite trattative tra il governo del Bhutan, quello del Nepal e l'Onu per tentare di far rientrare almeno una minima parte dei rifugiati. Una commissione bilaterale ogni tanto arriva qui e tenta di fare un censimento per verificare il grado di "autenticità bhutanese" dei profughi, con risultati spesso paradossali. Secondo il governo di Thimphu, solo il 5 per cento degli oltre 100 mila rifugiati dell'area avrebbe dei requisiti di nazionalità validi, cioè la prova provata di aver vissuto in Bhutan da prima del 1958. Tutti gli altri (contadini analfabeti che non hanno mai avuto in tasca un documento) sarebbero immigrati successivi se non addirittura impostori, cioè nepalesi poveri che si sono introdotti nei campi per godere degli aiuti in cibo dell'Onu.
Una spiegazione surreale che pure viene offerta con naturalezza, insieme alla grossolana bugia diffusa dalla Bbs - la tv di Stato del Bhutan - secondo cui all'interno dei campi i profughi riceverebbero dall'Onu tre dollari al giorno a testa, cioè uno stipendio superiore a quello di molta gente in Nepal. In realtà i profughi non vedono un centesimo e l'unico modo con cui possono migliorare le proprie condizioni di vita è inventarsi un mestiere da svolgere nella loro semi-prigionia, visto che uscire è vietato. Così c'è chi fila la lana per tessere cappelli, chi lavora una modestissima pasta d'argento per creare rozzi ornamenti, chi approfitta di una capanna caduta per coltivare insalata nel fazzoletto di terra libero. Il cappellaio, Narpati Phayel, 49 anni che sembrano 70, in Bhutan faceva l'impiegato dello Stato, posizione di discreto prestigio. Lui non avrebbe avuto problemi a uniformarsi alla Legge sulla Correttezza Culturale, quella che imponeva l'abito tradizionale dei Drukpa a tutti i funzionari pubblici, ma un giorno l'hanno licenziato lo stesso. Senza lavoro, minacciato e insultato per strada, è arrivato qui a piedi e in autobus con tutta la famiglia: in media finisce un cappello in due giorni, lo vende a 65 rupie nepalesi, a conti fatti guadagna mezzo dollaro al giorno.
Al di là della povertà, spiegano i giovani di Beldangi, è la frustrazione ad avvelenare gli animi di chi vorrebbe soltanto un'esistenza normale. Con questa utopia nel cuore, all'interno del campo hanno costruito una specie di ospedale, un paio di templi per pregare, perfino una scuola dove tutti, dai maestri ai custodi, sono rifugiati Lotshampas. Gli alunni sono venuti al mondo qui dentro e del mondo non hanno mai visto altro che queste capanne. I quaderni li fornisce la Caritas e i corsi sono parificati a quelli di chi sta fuori, in Nepal. Ma il problema è che anche quando si arriva a un titolo di studio e si parla un inglese decente, per i rifugiati è impossibile avere il permesso di lavoro - né in Nepal, né in India né tanto meno in Bhutan - perché non si ha alcun passaporto valido. Si resterà tutta la vita senza patria e abusivi.
Anche per questo i ragazzi dei campi vengono sedotti in numero crescente dalle sirene della guerriglia maoista: i seguaci del "compagno Prachanda", che combattono da dieci anni sulle montagne a pochi passi da qui per rovesciare il re del Nepal, non chiedono documenti a nessuno e sanno incanalare benissimo la rabbia di questi emarginati totali nei loro miti rivoluzionari. Gli ex profughi finiti col fazzoletto rosso a combattere sono già centinaia. Altri ragazzi fuggono di notte per darsi a una vita randagia e illegale al confine tra India e Nepal: contrabbando, prostituzione, traffico di armi e di droga, insomma sempre meglio che prigionieri senza colpa a Beldangi.
Il Nepal, che ospita i rifugiati ma vorrebbe tanto vederli tornare a casa, è ovviamente assai teso per questa crescente illegalità. Qualcuno nel paese pensa a una politica di riassorbimento graduale dei profughi nella società civile, ma sono gli stessi rifugiati a continuare a rivendicare la propria identità e a non rinunciare all'idea di tornare un giorno in Bhutan. Probabilmente ignorano che nella loro patria d'origine in questi ultimi 15 anni la cultura della supremazia Drukpa ha fatto passi da gigante. Nei pomposi discorsi sul progresso e sulla democrazia che ogni tanto pronuncia il re Jigme Singye Wangchuck non c'è nemmeno un accenno a questi ex compatrioti ripudiati, e nuove norme scoraggiano i bhutanesi doc a mescolarsi con gli altri popoli dell'area. Ben agghindati nelle loro linde vesti tradizionali, orgogliosi della propria purezza etnica, entusiasti della loro ritrovata specificità buddhista, i notabili di Thimphu e dintorni non hanno la minima intenzione di far tornare mai più i profughi a casa.
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