Da Left - Avvenimenti del 28/04/2006

Gli esclusi di Bravetta

Condizioni igieniche da favelas, facce stanche, droga, paura e tanta violenza. Entriamo nel Residence Roma, simbolo del degrado della capitale, dove vivono ancora centinaia di persone

di Roberto Bortone

Approfondimenti / DOSSIER


 
Emergenza casa

Da Bombay a Roma, passando per quasi tutte le grandi metropoli del mondo, avere un tetto sopra la testa è sempre meno un diritto e sempre più un problema. Bidonville, baraccopoli, banlieur, ghetti, serpentoni, bronx e periferie sono i nomi con cui chiamare le facce di una stessa medaglia, fatta di malessere, precarietà ed esclusione. Questo dossier vuole essere un punto di partenza per navigare orizzontalmente tra le pareti di questo problema localizzato e globalizzato, comune a miliardi di essere umani, chiamato casa. Abbiamo aggiunto il termine emergenza perchè sintetizza meglio di altri lo stato attuale della situazione.
Roma. Via Bravetta, civico 480. Una malconcia recinzione bianca fa da cornice al complesso residenziale tristemente noto alle cronache come ‘Residence Roma’. Di proprietà del palazzinaro Massimo Mezzaroma, il Residence, come viene comunemente chiamato nei dintorni, fu affittato a peso d’oro dall’amministrazione comunale capitolina agli inizi degli anni ’80 per fare fronte alla crisi abitativa romana causata dalla mancata realizzazione di nuove case popolari. Negli alloggi provvisori furono ammassate famiglie romane senza alcun tipo di reddito, sfrattati, zingari italiani, in tutto circa 500 nuclei. Una miscela esplosiva che non ha tardato ad infiammarsi. Sin da subito Bravetta, il quartiere “bene” a due passi da Monteverde, aveva manifestato le sue preoccupazioni per l’inserimento di questa enclave di poveri nel suo tessuto sociale. Ma per anni la parola Residence è giunta alle orecchie di coloro che avevano determinato politicamente quello stato di cose come il fastidioso ronzio di una mosca. Era solo un problema temporaneo, una soluzione di emergenza, dicevano. Da allora sono trascorsi molti anni, la pazienza degli sfortunati abitanti si è trasformata in rabbia e la povertà in violenza mentre le cinque palazzine del Residence divenivano con il tempo i blocchi di un vero e proprio ghetto legalizzato nel cuore della capitale. L’emergenza è stata istituzionalizzata.

Oggi gran parte delle famiglie che avevano trovato riparo (il nome tecnico è “assistenza alloggiativa”) nel Residence Roma hanno finalmente ricevuto una casa vera. Avremmo voluto che fosse questo il lieto fine di una brutta storia. Non è andata così. A Bravetta il dramma continua.

Nei mesi scorsi l’amministrazione capitolina, anche in considerazione del crescente clima di violenza all’interno del Residence Roma, ha dato il via alla chiusura del ghetto e allo sgombero degli occupanti. Insieme alle forze dell’ordine sono entrate le prime timide telecamere e l’opinione pubblica ha iniziato a capire cosa sia stato realmente il Residence. Tuttavia le immagini di degrado estremo, seppur crude, non bastano a tracciare un bilancio di questi decenni di esclusione forzata.

Andando a scavare nelle storie, nella vita del Residence emergono cifre drammatiche (e non solo per le casse dell’amministrazione, dilapidate dall’esoso mantenimento delle cinque palazzine). Più che lo stato di abbandono degli edifici, più della puzza insopportabile, sconcerta il resoconto umano, il tributo di sangue che cittadini di serie b hanno pagato negli anni all’immobilismo politico e culturale di una metropoli. Parlando con i padri e con le madri del Residence si scopre che la malavita, la droga, la prostituzione e tutto quello che si diceva, e a ragione, abitasse quelle palazzine e quei cortili, hanno avuto sempre dei volti, delle mani, delle gambe, delle voci. Volti, mani, gambe e voci che oggi non vivono più se non nella memoria e nel racconto di chi li ha conosciuti. Tanti, troppi i genitori del Residence Roma che hanno visto strapparsi via i propri figli dalla droga, dalla criminalità e dall’emarginazione più nera. Troppi i bambini che hanno imparato sulla propria giovane pelle il vero significato della parola esclusione. Lacrime e sangue versati nell’indifferenza dei più, senza trovare giustizia nei titoli dei giornali o nelle manifestazioni di protesta per il degrado del quartiere. Chi è riuscito ad andarsene porterà per tutta la vita i segni di quella convivenza forzata, e sentirà pronunciare la parola Residence come il nome di una tremenda maledizione.

“Il Residence quando ancora ci vivevo era brutto, ma oggi è peggio”, ci dice V. mentre ci guida con disinvoltura nei cortili e nei garage più insidiosi. E’ un ragazzo alto, robusto; da poco la sua famiglia ha ricevuto una casa popolare nel quartiere di Pomezia, alle porte della Capitale. V. sa bene che la sua forza fisica non è stata di poco conto nei suoi lunghi 18 anni trascorsi nel Residence. E’ per questo che mentre parla nei suoi occhi si legge un po’ di orgoglio, di speranza, perché in fondo lui ce l’ha fatta.

Che posto strano il Residence Roma: nonostante gran parte degli iniziali occupanti abbia oggi cambiato quartiere e vita, ufficialmente chiuso nel novembre 2005, fa ancora parlare di sé. Per quale motivo? Perché continua ad essere quello che era ieri: un laboratorio dell’esclusione, una gabbia lasciata aperta in cui corrono a rinchiudersi quelli che precipitano nella miseria passando attraverso le maglie strappate del nostro tessuto sociale.

Accadeva così che mentre in Europa si discuteva di come umanizzare le periferie, nella capitale del nostro Paese, qualcuno, “distratto” pensava ad altro: a come spremere ancora quelle pareti già marce. E mentre i cassonetti venivano rimossi, i lavori di manutenzione tagliati, il riscaldamento e l’acqua calda interrotti perché il Residence “stava chiudendo”, dopo una veloce bonifica alcune palazzine anziché essere sigillate e murate per sempre con il loro dolore, sono state affittate. E sotto gli occhi sgomenti delle 30 famiglie italiane rimaste ad aspettare la casa popolare, un muro di cemento armato ha diviso in due il laboratorio per far posto alle nuove cavie.

Che non si sono fatte attendere. Quasi tutti immigrati irregolari, questa volta regolari affittuari chiamati dal sig. Mezzaroma ad alleviare la solitudine delle poche famiglie rimaste. E’ così che a gennaio 2006 il Residence Roma viaggiava di nuovo a pieno carico, con circa 1200 inquilini, quasi tutti paganti. Come a dire che finché ci sarà esclusione sociale ci saranno inquilini per il Residence Roma.

Dopo i primi sgomberi del mese i marzo, sappiamo che il ghetto è ancora aperto. E sono molti quelli che continuano a pagare l’affitto. A chi non è dato saperlo. Mancavano solo gli sciacalli nel Residence Roma.
Topi, spazzatura, fogne scoppiate, aria fetida, ancora topi, ancora spazzatura. Mentre si cammina nei corridoi delle cinque palazzine che compongono il Residence c’è qualcosa che ti accompagna sempre: non è tanto l’immagine della miseria e del degrado quanto il contrasto con ciò che si è appena lasciato fuori dal cancello bianco. Alcune facce alla vista della macchina fotografica si girano, altre assumono un aria di sfida. Molte porte si chiudono mentre saliamo quelle che un tempo erano delle scale, eppure alcuni volti attraggono la nostra attenzione e sono a loro volta attratti dalla nostra presenza. Volti stanchi che ci fissano, che ci interrogano e che soprattutto hanno voglia di raccontare la loro verità su quel luogo di disperazione. Vent’anni in quelle condizioni disumane possono generare anche questo: dignità, forza d’animo e solidarietà. Nel nostro piccolo viaggio abbiamo scoperto essere questi i tre ingredienti che hanno permesso alle persone del Residence di sopravvivere.

“Uno che sta fuori non può arrivare a capire cosa significa vivere nel Residence”, ci dice la sig.ra Franca, originaria di Venezia, che sta per compiere 70 anni di cui cinquanta trascorsi a Roma, 10 dei quali trascorsi li, accendendosi l’ennesima sigaretta. “Fumo perché almeno a quest’odore sono abituata e poi riesce, almeno dentro casa, a mascherare un pochino la fetida puzza che proviene da sotto”. Già perché, non ci eravamo ancora arrivati, la palazzina A vive un disagio, se vogliamo chiamarlo così, tutto particolare. Dopo circa 4 anni di convivenza forzata ai limiti della sopravvivenza le circa 800 persone, per lo più senegalesi, che hanno affittato gli alloggi lasciati dagli inquilini italiani, hanno, come era prevedibile vista la già precaria condizione dello stabile, finito per toccare il fondo: le fogne sono letteralmente scoppiate, gli ascensori inagibili da anni sono stati murati, le pareti nei corridoi sono state sfondate, l’elettricità salta circa 3 volte al giorno, l’acqua calda non c’è da vari mesi e così pure i riscaldamenti. E l’inverno ancora non è finito.

Ma quali sono le fondamenta della convivenza, ovvero cosa ha tenuto in piedi il Residence Roma? C’è ancora tanta violenza qua dentro Paura e rassegnazione convivono con la dignità. La solidarietà è tangibile, palpabile, concreta. Senza di essa nessuno potrebbe sopravvivere in quelle condizioni. Lo sa bene M., che ha 30 anni e vive al Residence dall’’81. Ci racconta che prima la sua famiglia era numerosa, erano in otto. Ora è solo. I genitori sono morti senza vedere la pensione, così come i suoi cinque fratelli, per i quali la droga ha scelto un comune, tragico destino. “Piuttosto che andare in un altro Residence mi faccio arrestare”, ci dice. Vive nella Palazzina E, l’ultima in fondo al complesso abitativo. Un passato difficile il suo. Diversi anni li ha passati dietro le sbarre. Poi la droga e la morte dei fratelli per overdose. Ma ora è un uomo diverso, ci tiene a precisare le persone che lo conoscono. La vita lo ha profondamente segnato. Lavora con una cooperativa medica che distribuisce bombole di ossigeno a domicilio. Ha una compagna ed un figlio di 3 mesi, che ovviamente non vivono con lui: il Residence non è un posto per neonati. E allora perché non te ne vai, gli chiediamo. “Se me ne vado perdo il diritto alla casa. Significa che la mia famiglia è morta invano e la mia giovinezza completamente sprecata. Non posso permetterlo”.

Ha tanta voglia di raccontare Marco, di parlare di quello che succede lì dentro. Ci parla di R., un anziano gravemente invalido, che da mesi è prigioniero nel suo fetido tugurio al settimo piano della Palazzina E. Non può scendere perché l’ascensore è rotto. “A dire il vero non ha mai funzionato correttamente e allora, ogni volta che si rivedeva Raffaele in giro, il pensiero di tutti correva all’ascensore riparato… Ogni tanto gli busso e gli chiedo se va tutto bene, gli porto le medicine”. Ce ne sono tante di storie come quella di Raffaele. Quelle che non ci hanno raccontato resteranno chiuse nei ricordi di chi da quell’inferno è riuscito ad uscire.
Annotazioni − Foto: Stefano Varano

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