Da Il Messaggero del 10/04/2006

Malati di lavoro: 20 ore al chiodo non per soldi, ma per ossessione

di Carla Massi

ROMA - Il lavoro come "droga", ossessione, autogratificazione, piacere, antidepressivo. Come è la dipendenza da gioco d'azzardo, da cibo, da acquisti. Ma anche come obbligo al quale, mente e corpo, non riescono a sottrarsi. E non per il denaro. Raccontato così, il lavoro, ha ben poco da spartire con il guadagno, la carriera e il potere. Raccontato come una malattia prende, in effetti, altri contorni e si allontana da quel quadro socio-economico nel quale siamo abituati ad incasellarlo. Ebbene, oggi, il lavoro, in molti casi (sempre di più), non è più il generatore del malessere e dello stress ma, paradossalmente, proprio il mezzo per placare il disagio, gli sbalzi d'umore, il male di vivere. Come se, questo ci dicono le visite e le diagnosi degli psichiatri, fosse diventato, al tempo stesso, medicina e malattia.

Una gran confusione di ruoli che, comunque, ha permesso di quantificare in una percentuale che varia tra il 6 e l'8% la popolazione italiana affetta da "work fixation", la dipendenza da lavoro. «Negli ultimi anni è stato registrato un netto incremento soprattutto per quanto riguarda, appunto, la dipendenza da lavoro - fa sapere Cesare Guerreschi presidente della Società italiana interventi sulle patologie compulsive che, a Bolzano, ha presentato una ricerca ad un simposio -. Qualsiasi esperienza è convertita in questo genere di attività e la persona si esaurisce in una continua dedizione frenetica, forsennata. Scordandosi anche chi è». Sono quasi 150 le persone oggi in cura per una dipendenza da lavoro nei centri della Siipac in Italia.

Più predisposti i liberi professionisti che "macinano" fino a 20-24 ore di fila senza interruzione. Senza neppure mangiare.

Difficile, comunque, è "diagnosticare" la dipendenza da lavoro. Dal momento che gli Stakanov sono generalmente apprezzati e molto ricercati. Sono indispensabili e vincenti, ottimi per oliare la macchina produttiva. Neppure il lavoratore si accorge di essere così dedito perché, nella maggior parte dei casi, prova piacere a darci sotto. «Soddisfa bisogni di autoaffermazione, taglia dalla propria vita ogni possibile legame affettivo, sente che gli viene riconosciuto un ruolo - spiega Massimo Biondi, ordinario di Psichiatria all'università "La Sapienza" di Roma -. Vive ai confini con la normalità. Diciamo che riesce ad andare d'accordo con il suo io. Non si può parlare di vera e propria dipendenza anche se l'attività spinta al massimo copre mancanze e vuoti. Ai quali, la persona, spesso non sa e non vuole dare un nome ». Differente è la vita dei "malati" da lavoro. Quelli che non provano piacere, quelli che sono spinti da una compulsione, da un obbligo che distoglie da tutto. «A differenza degli altri - aggiunge Biondi - coprono un dolore. Non godono ma non riescono a sottrarsi come accade a chi controlla quattro volte consecutive se ha chiuso il gas prima di andare a letto. Tengono così a bada una depressione latente, si difendono e, in fondo, hanno anche il consenso sociale. I loro comportamenti sono costruttivi e non certo, apparementemente, distruttivi. Questo, finché la famiglia non chiede di mettere fine o la persona si trova strangolata dalla sua ossessione».

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