Da The New Yorker del 21/05/2006

Il Presidente Bush vuole arrivare alla guerra pur di impedire a Teheran di possedere la bomba?

di Seymour M. Hersh

In pubblico, l'amministrazione Bush non cessa di appellarsi alla diplomazia, per tentare di dissuadere l'Iran dalla costruzione di armi atomiche; tuttavia, lontano da occhi indiscreti, l'entourage del presidente ha aumentato le attività clandestine in territorio iraniano e ha intensificato i piani per un eventuale attacco aereo in grande stile. Alcuni funzionari presenti e passati dell'esercito e dell'intelligence americana hanno dichiarato che gli strateghi della Air Force stanno stilando le liste degli obiettivi; allo stesso tempo, alcune truppe di combattimento americane in Iran hanno ricevuto l'ordine di raccogliere, sotto copertura, informazioni sugli obiettivi e di stabilire contatti con le minoranze dei gruppi etnici antigovernativi. Questi funzionari sostengono anche che Bush sia determinato a negare al regime iraniano la possibilità di intraprendere un programma-pilota di arricchimento dell'uranio, previsto per questa primavera.

I servizi segreti americani ed europei, insieme all'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA), concordano sul fatto che l'Iran sia intenzionato a dotarsi dei mezzi necessari a produrre armi atomiche. Tuttavia, ci sono pareri assai discordanti tra loro, sia per quanto riguarda i tempi che saranno necessari all'Iran per tale scopo, sia a proposito della strategia dissuasiva più efficace: diplomazia, sanzioni o intervento militare? Teheran ribadisce che il suo programma nucleare ha fini puramente civili, in linea coi dettami del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare (TNP), e che non verrà ostacolato né bloccato.

Tra i membri dell'esercito americano e la comunità internazionale si registra la crescente convinzione che, nel contenzioso nucleare con l'Iran, il vero obiettivo di Bush sia il rovesciamento del regime iraniano. Il suo presidente, Mahmoud Ahmadinejad, ha messo in discussione la veridicità dell'Olocausto e ha dichiarato che Israele dovrebbe essere “cancellato dalle mappe”. Un ex funzionario dell'intelligence ha affermato che, alla Casa Bianca, Ahmadinejad è considerato un potenziale Adolf Hitler. “È così che lo chiamano. Si chiedono se l'Iran sia capace di costruire la bomba e possa scatenare una nuova guerra mondiale”.

Un consulente governativo molto vicino ai vertici della struttura civile del Pentagono ha rivelato come Bush sia “assolutamente convinto che l'Iran avrà l'atomica”, se non verrà fermato in tempo. Inoltre, ha aggiunto che il presidente crede di esser chiamato a fare “ciò che nessun futuro presidente, sia esso democratico o repubblicano, avrà il coraggio di fare”, e che “salvare l'Iran sarà la sua eredità”. Un ex funzionario della difesa, che ancora collabora con l'amministrazione Bush per le questioni delicate, mi ha confidato che i piani militari si fondano sulla convinzione che “una campagna di bombardamenti massicci sull'Iran screditerà le gerarchie religiose e porterà il popolo a ribellarsi e a rovesciare il governo”. Ha aggiunto: “Quando sentii parlare di queste cose, rimasi di sasso. Mi domandai che cosa avessero fumato”.

Il ragionamento del «cambio di regime» è stato messo a punto all'inizio di marzo da Patrick Clacson, esperto di questioni iraniane, vicedirettore alla ricerca al Washington Institute for Near East Policy (Istituto di Washington per la Politica nel Vicino Oriente) che è stato anche un sostenitore di Bush durante la campagna elettorale. “Finché l'Iran sarà una Repubblica Islamica, avrà un programma nucleare, quantomeno clandestino”, ha detto Clawson alla Commissione per le relazioni con l'estero del Senato, il 2 marzo scorso. “La questione-chiave quindi è: quanto potrà tenere duro l'attuale regime iraniano?”

Quando ho parlato con Clawson, egli ha sottolineato il fatto che “questa amministrazione sta profondendo notevoli sforzi per una soluzione diplomatica”. Tuttavia, ha aggiunto, l'Iran non ha altra scelta che piegarsi alle richieste dell'America, oppure dovrà fronteggiare un attacco militare. Clawson dice di temere che Ahmadinejad “consideri gli occidentali come delle pappamolle che un giorno o l'altro getteranno la spugna. Dobbiamo essere pronti a fare i conti con l'Iran, se la crisi dovesse peggiorare”. Ha aggiunto che, per quanto lo riguarda, preferirebbe appoggiarsi su atti di sabotaggio e altre operazioni clandestine, come degli “incidenti industriali”. Tuttavia, sarebbe prudente prepararsi per un conflitto più ampio, “visto il modo in cui si comportano gli iraniani. Non è come progettare di invadere il Quebec”.

Ho appreso da uno stratega dell'esercito che tutto fa parte di una campagna di “pressione” rivolta contro l'Iran: le critiche della Casa Bianca, il ritmo sostenuto con cui vengono stabiliti i piani militari, le attività clandestine. “Dobbiamo essere pronti a procedere, e poi vedremo come reagiranno”, ha detto l'ufficiale. “Dobbiamo minacciare sul serio Ahmadinejad, se vogliamo che torni sui suoi passi.” Poi ha aggiunto: “La gente è convinta che Bush si sia fissato su Saddam Hussein fin dagli attentati alle Torri Gemelle; secondo me, se davvero Bush si è focalizzato su qualcosa fin da allora, questo qualcosa è proprio l'Iran”. (In risposta a richiesta precisa di un commento su quanto appena riferito, la Casa Bianca ha detto che non avrebbe rilasciato dichiarazioni circa un'eventuale azione militare, ma ha aggiunto: “Come indicato dal presidente, stiamo cercando una soluzione diplomatica”; anche il Dipartimento della Difesa ha affermato che si sarebbero utilizzati “canali diplomatici” per trattare con l'Iran, ma senza soffermarsi sui particolari; la CIA, da parte sua, ha ammesso che questa interpretazione presentava diverse “inesattezza”, ma si è guardata bene dallo specificare quali).

“È molto più che una semplice questione sul nucleare”, mi ha confidato a Vienna un diplomatico di alto rango. “Questa è una questione catalizzatrice e c'è ancora tempo per risolverla. Ma l'amministrazione crede che è impossibile farlo, se non si controllano i cuori e le menti degli iraniani. La questione autentica riguarda chi, nel prossimo decennio, riuscirà a prendere il controllo del Medio Oriente e del suo petrolio”.

Un consigliere anziano del Pentagono sulla «guerra al terrore» ha espresso un parere simile: “La Casa Bianca crede che l'unico modo per risolvere il problema sia quello di cambiare la gerarchia in Iran – e questo significa guerra.” Il pericolo, ha detto, è rappresentato dal fatto che “tutto questo non fa che rinforzare la convinzione del popolo iraniano, che l'unico modo per difendere la propria nazione sia il potenziale atomico”. Un conflitto militare che destabilizzasse la regione potrebbe inoltre aumentare il rischio del terrorismo: “Entra in gioco l'Hezbollah”, ha concluso il consigliere – riferendosi alla potente organizzazione terroristica, ora diventata un partito politico in Libano, legato a doppio filo all'Iran. “E quindi al-Qaeda”.

Nelle ultime settimane, il Presidente, in sordina, ha iniziato una serie di discussioni circa i piani per l'Iran, con pochi ma influenti senatori e membri del Congresso, tra cui almeno un esponente democratico. Un membro anziano della Commissione Bilancio della Congresso, che non ha preso parte alle riunioni ma che ne ha discusso i contenuti coi colleghi, mi ha detto che non sono state impartite «istruzioni ufficiali», perché “l'esecutivo è riluttante a ragguagliare la minoranza. Hanno agito come un circolo accademico, peraltro assai esclusivo.”

Inoltre, nessuno dei partecipanti a tali meeting “si è seriamente opposto” all'idea della guerra. “Le persone che vi prendono parte sono le stesse che hanno condotto l'attacco contro l'Iraq. Al massimo, vengono sollevate questioni del tipo: come farete a colpire tutti questi siti allo stesso tempo? Come farete ad andare abbastanza in profondità?” (L'Iran sta costruendo installazioni sotterranee). Ha poi aggiunto: “Il Congresso non esercita alcuna pressione” affinché l'opzione bellica venga scartata. “L'unica pressione politica proviene da quelli che vogliono attaccare”. A proposito del presidente Bush, il membro della House ha detto: “La cosa più terrificante è che quest'uomo ha una visione messianica”.

Alcune operazioni, apparentemente indirizzate in parte a intimidire l'Iran, sono già in corso. Lo stesso funzionario ha rivelato che, sin dalla scorsa estate, degli aerei della Marina americana, decollando dalle portaerei di stanza nel Mare Arabico, hanno eseguito delle missioni simulate di bombardamento con armi nucleari – rapide manovre d'ascensione conosciute come bombardamenti «sopra la spalla» («over the shoulder») – all'interno della portata dei radar costieri iraniani.

Il mese scorso, in un documento presentato ad una conferenza di Berlino per la sicurezza nel Medio Oriente, il colonnello Sam Gardiner – un analista militare che ha insegnato al National War College prima di ritirarsi dalla Air Force nel 1987 – ha fornito una stima di ciò che è necessario fare per annientare il programma nucleare iraniano. Basandosi sulle immagini satellitari delle installazioni conosciute, Gardiner ha calcolato che sarebbe necessario colpire almeno 400 obiettivi. Ha poi aggiunto:

Non penso che uno stratega militare degli Stati Uniti si fermerebbe a questo. L'Iran è probabilmente in possesso di due impianti chimici: bisogna colpirli. Dovremmo anche colpire quei missili balistici a medio raggio che sono stati recentemente spostati lungo il confine iracheno. Ci sono 14 basi aeree che custodiscono velivoli...dovremmo sbarazzarci di questa minaccia. Dovremmo colpire quelle installazioni che potrebbero essere utilizzate per insidiare le nostre forze navali nel Golfo. Ciò significa distruggere i siti di lancio di missili da crociera e i sottomarini diesel iraniani...alcune delle installazioni potrebbero essere difficili da distruggere persino con armi da penetrazione. Gli Stati Uniti dovranno far ricorso alle unità per le Operazioni Speciali.

Una delle opzioni strategiche iniziali, presentata dal Pentagono alla Casa Bianca questo inverno, proponeva di utilizzare contro le installazioni sotterranee una nuova arma nucleare tattica, come la B61-11, la Bunker Buster. Uno degli obiettivi è l'impianto di Natanz, circa 250 chilometri a sud di Teheran, dove si trovano le centrifughe per l'arricchimento dell'uranio. A quanto si dice, a Natanz (che non è più sotto la tutela della AIEA), 25 metri sotto la superficie, c'è spazio sufficiente per custodire 50mila centrifughe, oltre ai laboratori e alle aree di produzione. Tale numero di centrifughe potrebbe sfornare uranio arricchito sufficiente per realizzare una ventina di testate nucleari l'anno. (L'Iran ha ammesso di aver inizialmente tenuto nascosto all'AIEA il suo programma nucleare, ma dichiara a gran voce che nessuna delle sue attività correnti costituisce un'infrazione al TNP). L'eliminazione dell'impianto di Natanz costituirebbe una notevole battuta d'arresto per le ambizioni nucleari iraniane; tuttavia, le armi convenzionali nell'arsenale americano non sono in grado di assicurare la distruzione di installazioni protette da 25 metri di terra e roccia, specialmente se a queste si aggiungesse delle strutture in cemento.

C'è un precedente, a proposito dell'attacco portato a bunker sotterranei con armi nucleari, e risale alla Guerra Fredda. All'inizio degli anni ‘80, i servizi segreti americani si accorsero che il governo sovietico aveva cominciato a costruire un'enorme complesso sotterraneo, poco distante da Mosca. Gli analisti conclusero che l'installazione doveva servire per la “continuità del governo” – in altre parole, per permettere alle gerarchie politiche di continuare ad operare in caso di guerra nucleare. (Ci sono installazioni simili in Virginia e in Pennsylvania, destinate ai leader americani). Il bunker sovietico esiste tutt'ora, e molto di quello che gli Stati Uniti sanno al suo proposito resta top-secret. Ecco quello che mi ha detto un ex ufficiale dei servizi segreti: “La «spia» – la rivelazione involontaria – l'hanno fatta i condotti di aerazione, alcuni dei quali erano camuffati”. A quell'epoca, ha continuato, era stato stabilito che “solo le armi nucleari” potevano distruggere quel bunker. Ha aggiunto che diversi analisti dell'intelligence americana sono convinti che siano stati i russi ad aiutare l'Iran a progettare la loro fortezza sotterranea. “Si può notare un design simile”, ha concluso, soprattutto per quanto riguarda i condotti di aerazione.

Un ex alto funzionario del Dipartimento della Difesa mi ha confidato che, secondo il suo punto di vista, anche un bombardamento relativamente limitato consentirebbe agli Stati Uniti di “andare laggiù e provocare un danno sufficiente per rallentare il programma nucleare – è fattibile.” Poi, ha proseguito: “Gli iraniani non hanno amici e noi possiamo dirgli che, se necessario, continueremo a tirargli giù le loro infrastrutture. Gli Stati Uniti dovrebbero comportarsi come se fossero pronti a farlo da un momento all'altro. Non abbiamo bisogno di distruggere l'integralità delle loro difese aeree. I nostri bombardieri Stealth e i nostri missili teleguidati funzionano benissimo e siamo in grado di far saltare in aria obiettivi immobili. Possiamo anche agire a terra, ma è difficile e molto più pericoloso: no, meglio mettere un po' di robaccia nei loro condotti di aerazione e farli dormire per sempre”.

Ma quelli che conoscono i bunker sovietici, sempre secondo l'ufficiale dei servizi segreti di cui sopra, “non sono d'accordo. Bisogna sapere cosa c'è là sotto: sapere quali ventilatori servono per rifornire le persone, quali sono generatori diesel, e quali sono specchietti per allodole. E ci sono cose che noi non sappiamo.” Se si prende come obiettivo di distruggere totalmente questi siti, la carenza di informazioni affidabili d'intelligence non lascia agli strateghi militari altra scelta se non quella di considerare l'utilizzo delle armi nucleari tattiche. Ogni altra opzione, secondo i sostenitori di questa soluzione, sarebbe incompleta. La parola d'ordine dei piani della Air Force è ‘decisivo'. È una decisione difficile. Ma l'abbiamo già fatto, in Giappone”.

Ha proseguito: “Gli strateghi nucleari passano attraverso un intenso addestramento e imparano i dettagli tecnici dell'esplosione e del fallout – stiamo parlando di funghi atomici, radiazioni, stragi di massa e contaminazioni che dureranno anni. Questo non è un test sotterraneo, dove tutto ciò che vedi è un po' di terra smossa. I politici non hanno la minima idea di quello di cui stanno parlando; e, quando qualcuno prova a suggerire l'abbandono dell'opzione nucleare, viene messo a tacere”.

L'attenzione rivolta verso l'opzione nucleare ha creato una notevole apprensione all'interno degli uffici dei Capi di Stato Maggiore Interforze e sembra che diversi ufficiali abbiano parlato di dimissioni. Lo scorso inverno, lo Stato Maggiore ha provato a scartare l'opzione nucleare dai piani bellici in preparazione per l'Iran; ma senza successo, come mi ha detto il funzionario dei servizi segreti. “La Casa Bianca ha detto: ‘Perché la state rinnegando? Questa opzione è una vostra idea”.

Il consulente del Pentagono per la "guerra al terrore" ha confermato che alcuni membri dell'amministrazione stavano seriamente considerando questa opzione, che lui collegava a una ripresa dell'interesse nelle armi nucleari tattiche da parte di responsabili civili del Pentagono e in alcuni ambienti politici. L'ha definita “un mastodonte, una forza della natura che deve essere fermata”. Ha anche confermato che alcuni alti funzionari e ufficiali stavano considerando l'idea di dimettersi a causa di questo problema. "All'interno dell'esercito ci sono opinioni fortemente contrarie al brandire armi nucleari contro altri paesi”, ha affermato il consulente. “Tutto ciò giunge dai piani alti". La questione potrebbe giungere presto ad una conclusione, ha detto, perché lo Stato maggiore della Difesa ha deciso di consegnare al presidente Bush una raccomandazione formale che attesti la loro forte opposizione all'opzione nucleare in Iran. “Il dibattito interno su questo argomento si è inasprito nelle ultime settimane”, ha commentato. “E se gli alti funzionari del Pentagono esprimono la loro opposizione a un'offensiva con armi nucleari, significa che non verrà mai portata avanti”.

Tuttavia, il consigliere ha aggiunto che l'idea di usare armi nucleari tattiche in situazioni simili ha guadagnato il supporto del Defense Science Board, una commissione di esperti i cui membri sono selezionati dal segretario alla difesa Donald Rumseld. “Stanno dicendo al Pentagono che siamo in grado di costruire una B61 con più carica esplosiva e meno radiazioni”, ha proseguito il consigliere.

Il presidente del Defense Science Board è William Schneider Junior, sottosegretario di Stato dell'amministrazione Reagan. Nel gennaio 2001, mentre il presidente Bush si preparava ad entrare in carica, Schneider ha prestato servizio in un gruppo formato ad hoc per le forze nucleari sostenuto dal National Institute for Public Policy, un think-tank conservatore. Il resoconto del gruppo suggeriva di trattare le armi nucleari tattiche come una parte essenziale dell'arsenale bellico Usa e segnalava la loro adeguatezza “nelle situazioni in cui la distruzione rapida e sicura di obiettivi ad alta priorità è essenziale e va oltre la prospettiva delle armi convenzionali”. Molti di coloro cha hanno firmato questa relazione ora sono membri di spicco dell'amministrazione di Bush; tra essi Stephen Hadley, il consigliere per la sicurezza nazionale, Stephen Cambone, il sottosegretario alla Difesa per i servizi segreti, e Robert Joseph, sottosegretario di Stato per il controllo delle armi e per la sicurezza internazionale.

Il consulente del Pentagono ha dubitato dell'efficacia degli attacchi aerei. “Gli iraniani hanno distribuito molto bene la loro attività nucleare; di conseguenza non sappiamo dove si trovino le loro basi fondamentali, potrebbero addirittura essere al di fuori del paese”, ha detto. Inoltre mette in guardia, come molti altri in precedenza, su un eventuale bombardamento in Iran, che potrebbe provocare una reazione a catena di attacchi a danno delle strutture e dei cittadini americani in tutto il mondo: “Cosa penseranno 1,2 miliardi di musulmani il giorno in cui attaccheremo l'Iran?“.

Con o senza l'opzione nucleare, la lista di obiettivi potrebbe inevitabilmente allargarsi. Un altro ufficiale di alto livello dell'amministrazione Bush esperto in piani di guerra, da poco in pensione, mi ha detto che si sarebbe vigorosamente espresso contro un attacco aereo in Iran, perchè “l'Iran è un obiettivo molto più duro” dell'Iraq. Comunque, ha aggiunto che “se si vuole andare a bombardare con lo scopo di fermare un'attività nucleare, si dovrebbe anche migliorare la propria posizione sul territorio, magari colpire alcuni campi di addestramento, risolvendo così molti altri problemi".

Il consulente del Pentagono ha affermato che, nell'eventualità di un attacco, la Air Force avrebbe intenzione di colpire centinaia di altri obiettivi in Iran di cui "il 99% non avrebbero nulla a che vedere con la proliferazione nucleare. Ci sono persone che credono che questo sia il modo giusto di operare” dice, riferendosi all'idea sostenuta da diversi neoconservatori per cui l'amministrazione potrebbe ottenere i suoi obiettivi politici in Iran attraverso una campagna di bombardamenti.

Se dovesse essere dato l'ordine di attacco, le truppe americane da combattimento che ora operano in Iran si troverebbero nella posizione ideale per segnalare gli obiettivi critici con raggi laser, assicurare l'accuratezza nel bombardamento e minimizzare quindi il numero di vittime civili. All'inizio dell'inverno, mi è stato comunicato da un consulente del governo strettamente legato ai vertici della struttura civile del Pentagono che le unità americane stavano lavorando anche insieme a gruppi di minoranze iraniane, fra cui gli azeri al nord, i beluci nel sud-est e i curdi nel nord-est. Le truppe "stanno studiando il terreno, distribuendo denaro qua e là ai vari gruppi etnici e reclutando informatori tra le tribù ed i pastori", ha affermato il consulente. Uno degli obiettivi è avere “occhi sul terreno”: citando un verso dell'Otello, "dammi la prova oculare". Il consulente ha aggiunto che l'obiettivo principale è quello di "incoraggiare la tensione fra le etnie" e indebolire il regime.

La nuova missione per le truppe da combattimento nasce da un interesse di vecchia data del segretario alla difesa Rumsfeld: ampliare i compiti dell'esercito nelle operazioni segrete. Questa nuova politica è stata resa ufficiale nel Rapporto Quadriennale sulla Difesa del Pentagono, pubblicato in febbraio. Se tali attività venissero condotte dagli agenti segreti della CIA, avrebbero bisogno di un ordine esecutivo del presidente e dovrebbero essere presentate ai principali rappresentanti del Congresso.

L'ex ufficiale superiore dell'intelligence mi ha detto che “l'espressione «protezione delle unità operative» va ora molto di moda”: si riferisce alla posizione del Pentagono per cui le attività clandestine, che possono essere a grandi linee classificate come una preparazione del campo di battaglia o protezione delle truppe, sono operazioni militari e non di intelligence, e perciò non vengono sottoposte alla supervisione del Congresso. “I tipi dello Stato Maggiore della Difesa dicono che ci sono molte incertezze in Iran. Abbiamo bisogno di qualcosa di più rispetto a ciò che avevamo in Iraq, e ora abbiamo carta bianca per fare ciò che vogliamo”.

La profonda diffidenza del presidente nei confronti di Ahmadinejad ha rafforzato la sua determinazione nell'affrontare l'Iran. Questa convinzione è rafforzata dai sospetti che Ahmadinejad, che fece parte delle squadre speciali delle Guardie Rivoluzionarie nel 1986, potrebbe essere stato coinvolto in attività terroristiche alla fine degli anni ‘80 (si trovano a quest'epoca lacune nella sua biografia ufficiale). In giro si dice che Ahmadinejad è stato in contatto con Imad Mughniyeh, un terrorista coinvolto nei sanguinari attentati all'ambasciata Usa e al quartier generale dei marine a Beirut nel 1983. Quest'ultimo è stato in seguito capo della sicurezza del movimento Hezbollah ed è ancora oggi nelle liste dell'FBI dei terroristi più ricercati.

Robert Baer, ufficiale della CIA in Medio Oriente e in altre regioni per un ventennio, mi ha detto che Ahmadinejad e i suoi compagni delle Guardie Rivoluzionarie al governo iraniano "sono in grado di creare una bomba, nasconderla e lanciarla contro Israele. Sono sciiti apocalittici. Se te ne stai seduto a Tel Aviv e credi che abbiano armi nucleari e missili, devi sbarazzartene, questi tizi sono fuori di testa e non c'è ragione di fare marcia indietro".

Sotto Ahmadinejad le Guardie Rivoluzionarie hanno esteso la base del loro potere attraverso la burocrazia iraniana; dalla fine di gennaio hanno sostituito migliaia di funzionari civili con i loro affiliati. Un ex-ufficiale di alto livello delle Nazioni Unite, che ha una notevole esperienza sull'Iran, ha descritto questo turnover come "un golpe bianco” con inquietanti ripercussioni per l'Occidente. "Alcuni professionisti del Ministero degli Esteri sono già fuori, altri stanno aspettando di essere cacciati” ha detto. "Potremmo essere arrivati troppo tardi, questi individui ora credono di essere più forti che mai, dal tempo della rivoluzione". Ha aggiunto che, tenendo conto della Cina come superpotenza emergente, l'atteggiamento dell'Iran è stato del tipo "Al diavolo l'Occidente. Che facciano ciò che vogliono".

Molti esperti considerano che lo Ayatollah Khamenei, supremo leader religioso dell'Iran, sia in una posizione più forte rispetto a Ahmadinejad. “Ahmadinejad non ha il controllo”, mi ha detto un diplomatico europeo;“Il potere è diffuso in Iran, e le Guardie Rivoluzionarie sono i primi sostenitori del programma nucleare, ma in definitiva non credo che ne siano i responsabili. Il leader supremo detiene l'ultima parola sul programma nucleare e le Guardie non agiranno mai senza la sua approvazione”.

Il consulente del Pentagono sulla «guerra al terrore» ha fatto notare che "permettere all'Iran di avere un'arma nucleare è fuori discussione. Non possiamo accettare che testate nucleari vengano cedute alla rete del terrorismo, è troppo pericoloso". Ha continuato: "L'intero dibattito interno ruota intorno a come agire" per fermare il programma iraniano. È possibile, ha detto, che l'Iran rinunci unilateralmente ai suoi progetti nucleari, e che prevenga l'azione americana. “Dio potrebbe sorriderci, ma non credo. La sostanza è che l'Iran non può diventare uno stato dotato di armi nucleari. Il problema è che gli iraniani hanno capito che solo diventando una potenza nucleare si potranno difendere dagli Stati Uniti. Sta per succedere qualcosa di drammatico”.

Se le ambizioni nucleari dell'Iran sono fuori discussione, il dibattito verte su quando riusciranno a realizzarle e su cosa fare a questo proposito. Robert Gallucci, già uno degli esperti del governo sulla non proliferazione, che ora presiede la «School of Foreign Service» a Georgetown, mi ha detto: "Per quanto ne so, l'Iran potrebbe essere lontano 8 o 10 anni" dalla creazione di un'arma nucleare utilizzabile. Ha inoltre aggiunto che “se si riuscisse a provare l'esistenza di un programma segreto e non si riuscisse a fermarlo con la negoziazione e la diplomazia, o con la minaccia di sanzioni, io sarei favorevole all'intervento armato. Se invece li si attaccasse senza provare l'esistenza di un programma segreto, ci si metterebbe dalla parte del torto”.

Meir Dagan, il capo di Mossad, i servizi segreti israeliani, ha riferito alla Knesset lo scorso dicembre che "l'Iran è, al meglio, ad uno o due anni di distanza dall'arricchimento dell'uranio. Da quel momento in poi, il completamento di un arma nucleare sarà una questione puramente tecnica". Nel corso di una discussione un alto ufficiale dell'intelligence d'Israele mi ha parlato di ciò che lui chiama la duplicità dell'Iran: “Esistono due programmi nucleari paralleli”, quello dichiarato alla AIEA e un'operazione separata condotta dall'esercito e dalle Guardie Rivoluzionarie. Gli ufficiali israeliani hanno ripetutamente sostenuto questa teoria, ma non sono riusciti a produrre prove a suo sostegno. Richard Armitage, il vice-segretario di Stato durante il primo mandato di Bush, mi ha detto: "Penso che l'Iran abbia un programma segreto di armi nucleari, ne sono convinto, ma non posso provarlo".

Negli ultimi mesi, il governo del Pakistan ha permesso nuovamente agli Stati Uniti l'accesso a A.Q. Khan, il cosiddetto padre della bomba atomica pachistana. Khan, che ora vive agli arresti domiciliari ad Islamabad, è accusato di avere creato un mercato nero di materiali nucleari;e si sa di almeno una sua visita clandestina a Teheran alla fine degli anni ‘80. Durante i più recenti interrogatori, Khan ha fornito informazioni sui progetti di armi iraniani e sulle loro tempistiche per la produzione della bomba. “Il quadro è di indubbio pericolo ”, ha detto l'ex ufficiale dell'intelligence. Il consigliere del Pentagono ha anche confermato che Khan ha “cantato come un canarino”. Il problema è che “Khan ha problemi di credibilità. È molto influenzabile e sta dicendo ai neocon ciò che essi vogliono sentirsi dire” – o ciò che può essere utile al presidente del Pakistan, Pervez Musharraf, che riceve pressioni da Washington per aiutarli nella 'guerra al terrore'.

"Io credo che Khan ci prenda in giro", ha aggiunto, "non conosco nessuno che direbbe «eccovi la prova inconfutabile», ma motivi di allarme ce ne sono. Ci sta riempiendo di informazioni sulle tempistiche, ed altre informazioni mirate ci arrivano dalle nostre stesse fonti, cioè i le attrezzature elettroniche e le squadre segrete. La CIA, che è rimasta così scottata dalla questione delle armi di distruzione di massa in Iraq, continua ad andare al Pentagono e dal vicepresidente dicendo: «È tutta un'altra cosa». I membri dell'amministrazione replicano: «Ne abbiamo abbastanza»".

Il caso Iran è compromesso dalla vicenda delle false informazioni di intelligence sulle armi di distruzione di massa in Iraq. In un recente saggio pubblicato sul sito internet della rivista Foreign Policy, e intitolato Fregami due volte, Joseph Cirincione, responsabile della non proliferazione al «Carnegie Endowment for International Peace» [una ong no-profit che ha come scopo la pace e la collaborazione fra paesi, ndt ], ha scritto che "la strategia mostrata dall'amministrazione Bush ha tutta l'aria di uno sforzo per ripetere la sua campagna di successo per la guerra in Iraq". Cirincione ha inoltre notato molti parallelismi:

Il vicepresidente degli Stati Uniti ha tenuto un importante discorso centrato sulla minaccia di una nazione ricca di petrolio in Medio Oriente; il segretario di Stato ha riferito al Congresso che questa stessa nazione è la più grande sfida per l'America; il segretario alla Difesa ha bollato questa nazione come il principale sostenitore del terrorismo internazionale.

Cirincione ha definito alcune affermazioni dell'amministrazione sull'Iran «discutibili», o mancanti di prove. Quando ci siamo parlati, lui mi ha chiesto: "Che cosa sappiamo? Qual è questa minaccia? La domanda è: quanto è urgente tutto ciò?" La risposta, ha detto, "ce l'hanno l'Intelligence Community e l'AIEA. In agosto, il Washington Post ha riferito che la più recente National Intelligence Estimate [rapporto dell'Intelligence Community americano, ndt ] prevedeva che l'Iran fosse a un decennio circa di distanza dall'essere una potenza nucleare.

L'anno scorso, l'amministrazione Bush ha informato gli ufficiali dell'AIEA della presenza di nuove e allarmanti informazioni riguardanti il programma di armi dell'Iran; queste erano state recuperate proprio da un portatile iraniano. I nuovi dati contenevano più di un migliaio di pagine di disegni tecnici di sistemi armati. Il Washington Post ha riportato anche di disegni di una piccolo macchinario che potrebbe essere usato nel processo di arricchimento dell'uranio. La fuga di notizie del laptop è diventata il punto focale delle storie del New York Times e di altri giornali. Gli articoli si mantenevano generalmente cauti nel far notare che il materiale poteva essere stato inventato, e citavano anche illustri ufficiali americani a sostegno della loro autenticità. Il titolo nel resoconto del Times diceva: “Fidandosi di un computer, gli Stati Uniti cercano prove delle intenzioni nucleari dell'Iran”.

Comunque, mi è stato comunicato in varie interviste con ufficiali dell'intelligence sia americani che europei, che il laptop in questione fosse molto sospetto e meno rivelatore di come fosse stato descritto. Inizialmente, l'iraniano che lo possedeva era stato ingaggiato dagli agenti dell'intelligence tedesca e americana, che lavoravano insieme. In seguito gli americani si disinteressarono di lui, mentre i tedeschi continuarono a lavorare con lui; poi l'iraniano fu preso dal controspionaggio del proprio paese. Ad oggi si sono perse le sue tracce. Alcuni suoi familiari erano riuscirono a fuggire dall'Iran con il computer e lo cedettero ad un'ambasciata americana, a quanto pare in Europa. È stato una classica diserzione.

Un ufficiale dell'intelligence europea ha detto che “c'è stata esitazione da parte nostra” su cosa quelle informazioni provassero realmente, “e non siamo ancora del tutto convinti”. I disegni non erano realizzati con precisione, come invece suggeriva il resoconto del giornale, “sembravano più che altro schizzi”, ha continuato l'ufficiale. “Non è stata quella che si suol dire una prova schiacciante”.

La minaccia di un'azione militare americana ha provocato costernazione nei quartieri generali dell'AIEA, a Vienna. I funzionari dell'agenzia sono convinti che l'Iran sia intenzionato a garantirsi la possibilità di costruire armi nucleari, tuttavia “nessuno ha presentato la benché minima prova di tale programma in Iran”, mi ha confidato il diplomatico. La previsione più precisa a disposizione dell'AIEA parla di 5 anni prima che l'Iran possa dotarsi di una bomba atomica. “Tuttavia, se gli Stati Uniti rispondessero con una qualsiasi azione militare, gli iraniani ne farebbero una questione di orgoglio nazionale. L'intera faccenda ruota alla valutazione del rischio che l'America fa a proposito delle intenzioni future dell'Iran. Non si fidano del regime degli ayatollah. Teheran è una minaccia per la politica americana”.

A Vienna, mi è stato raccontato di un incontro piuttosto teso, verificatosi all'inizio dell'anno, tra il direttore generale dell'AIEA Mohamed El Baradei – Premio Nobel per la Pace 2005 – e Robert Joseph, Sottosegretario di Stato americano per il controllo degli armamenti. Come ricorda un diplomatico, il discorso di Joseph fu secco: “Non possiamo permettere la presenza di una singola centrifuga in Iran. E' una minaccia diretta alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti e dei nostri alleati, e noi non lo tollereremo. Pretendiamo che lei ci garantisca di non dire niente pubblicamente che possa indebolire la nostra posizione”.

La sfuriata di Joseph non era necessaria, ha commentato il diplomatico, visto che l'AIEA si è mostrata inflessibile nei confronti della Repubblica Islamica. “Tutti gli ispettori sono contrariati dall'atteggiamento degli iraniani, e alcuni credono che la leadership di Teheran sia pervasa dalla follia – al cento per cento sono davvero pazzi”, ha detto il diplomatico. Ha aggiunto poi che la questione principale sta nel fatto che i leader iraniani “vogliono lo scontro, proprio come, sull'altra sponda, lo vogliono i neocon di Washington”. “In conclusione, si arriverà a qualche risultato solo se gli stati Uniti accetteranno di dialogare con gli iraniani”.

Il punto centrale – se l'Iran sarà in grado o meno di procedere con i propri programmi di arricchimento dell'uranio – è ora davanti alle Nazioni Unite, con Russia e Cina riluttanti a imporre sanzioni a Teheran. Uno sconfortato ex funzionario dell'AIEA mi ha riferito alla fine di marzo che, a questo punto, “niente di ciò che gli iraniani faranno potrà favorire una soluzione positiva della questione. La diplomazia statunitense non intende muoversi in questo senso. Anche se l'Iran annunciasse un'interruzione dei programmi nucleari, nessuno ormai li crederebbe più. È un binario morto”.

Un altro diplomatico a Vienna mi ha chiesto: “Perché l'Occidente si assumerebbe il rischio di dichiarare guerra ad un simile bersaglio senza prima consentire all'AIEA di effettuare le verifiche necessarie? Costiamo poco e possiamo predisporre un programma che costringa l'Iran a giocare con le carte sul tavolo”. Un ambasciatore occidentale a Vienna ha espresso simile disappunto per l'intenzione della Casa Bianca di “scaricare” l'AIEA: “Se non si crede che l'AIEA possa stabilire un efficace programma di ispezioni – se non si ha fiducia in loro – l'unica via diventa allora quella dei bombardamenti”.

L'amministrazione Bush e i suoi alleati europei nutrono verso l'AIEA una modesta stima. “Siamo abbastanza delusi dal direttore generale ”, mi ha confessato questo diplomatico europeo. “Il suo approccio semplicista è stato quello di considerare la scontro come una disputa tra due contendenti di pari valore. Non è così. Noi siamo i buoni! El Baradei vuole consentire all'Iran di disporre di un ridotto programma di arricchimento dell'uranio, il che è grottesco. Non è suo compito sostenere idee che favoriscono un serio pericolo di proliferazione nucleare”.

Tuttavia, gli europei sono preoccupati dalla impressione crescente che il presidente Bush e il suo vice Dick Cheney sentano necessario un attacco militare e che il loro vero obiettivo sia la caduta del regime di Teheran. “Tutti concordano sul problema del nucleare iraniano, ma in più gli Stati Uniti vogliono l'avvicendamento del regime”, mi ha riferito un altro diplomatico europeo. E ha aggiunto: “Gli europei hanno un ruolo da giocare fino a quando non saranno costretti a seguire la via sino-russa oppure la via americana, in una direzione che non condividono. La loro politica è quella di mantenere gli Usa su una posizione che l'Europa può accettare. Potrebbe essere insostenibile”.

“I britannici non credono affatto sia una buona idea”. E' quanto mi ha detto Flynt Leverett, un ex membro del Consiglio di Sicurezza Nazionale Usa ora al Brookings Institution's Saban Center: “sono davvero scontenti del fatto che sia l'opzione scelta”. Il consigliere diplomatico europeo ha riconosciuto che il British Foreign Office sapeva da tempo dei piani di guerra di Washington ma, “a corto di prove reali, non sarà facile raccogliere gli europei su una posizione comune sull'Iran”. Ha aggiunto poi che i britannici “sono nervosi pensando agli americani che vogliono buttarsi a capofitto contro l'Iran, senza compromessi”.

Il diplomatico europeo ha sostenuto di essere scettico sul fatto che l'Iran, considerati i precedenti, non abbia mentito sui propri piani; ma “tutto quello che possiamo sapere è che lo sviluppo delle attività nucleari iraniane non è sul punto di completare con successo la costruzione dei diverse centrifughe” per arricchire consistenti quantità di uranio. Una ragione per proseguire sulla strada della diplomazia, secondo il diplomatico, è il sostanziale pragmatismo dell'Iran: “Il regime agisce secondo i suoi meri interessi; i leader iraniani hanno assunto una posizione ferrea sul nucleare per scoprire il bluff americano”, credendo che “più fermi si dimostreranno, più probabilmente l'Occidente desisterà”. Ma, ha aggiunto, “da quello che abbiamo visto con l'Iran, essi sembrano estremamente sicuri di sé fino al momento in cui non si tirano indietro”.

Il diplomatico ha così proseguito: “Non si ricompensa mai un cattivo comportamento, e questo non è il momento di fare concessioni. Quello che dobbiamo fare è trovare il modo di imporre a Teheran sufficienti condizioni perché torni alla ragione. Tutto si giocherà sul filo del rasoio, ma credo che se ci sarà un'opposizione compatta e se il costo - delle sanzioni - sarà adeguato, Teheran potrebbe cedere. È troppo presto per abbandonare la strada delle Nazioni Unite”. E ha aggiunto: “Se la via diplomatica non dovesse dare i frutti sperati, quella militare non costituirebbe una «soluzione». Potrà anche esistere un'opzione militare, ma le conseguenze sarebbero catastrofiche”.

Il Primo ministro britannico Tony Blair è stato il più fedele alleato di Bush nel periodo che ha portato all'invasione dell'Iraq nel 2003. Lui ed il suo partito però sono stati travolti da una serie di scandali finanziari, e la sua popolarità oggi è a dei minimi storici. Jack Straw, il Ministro degli esteri britannico, l'anno scorso ha dichiarato che l'idea di un attacco militare contro l'Iran era «inconcepibile». Blair si è mantenuto più cauto, affermando pubblicamente che nessuna opzione dovrebbe mai essere esclusa.

Altri diplomatici europei hanno espresso il proprio scetticismo sull'ipotesi di una campagna americana di bombardamenti. “L'Iran è messo male economicamente, e Ahmadinejad lo è politicamente”, mi ha detto il funzionario dei servizi segreti europei. “Il presidente iraniano ci guadagnerebbe con un'aggressione statunitense. Bombardare si può, ma i risultati potrebbero essere peggiori”. Un attacco americano, ha proseguito, “alienerebbe l'iraniano medio, anche quello che guarda agli Usa con simpatia”. “L'Iran non vive più all'età della pietra, i giovani laggiù hanno libero accesso ai libri e ai film americani, e li adorano”, ha fatto notare. “Se si operasse in Iran con un'offensiva di charme, i mullah del Paese si troverebbero in difficoltà, sul lungo periodo”.

Un altro ufficiale europeo mi ha detto di essere conscio che molti a Washington propendono per l'uso della forza. “Sono sempre i soliti”, ha precisato con amarezza: “credono che la diplomazia sia condannata a fallire ed i tempi sono brevi sulle loro agende”.

Un alleato chiave con un importante voce in capitolo è Israele, la cui leadership da anni vede ogni tentativo dell'Iran di portare avanti il proprio programma nucleare come un punto di non ritorno. Da diversi funzionari mi è stato riferito che l'interesse della Casa Bianca di prevenire un eventuale attacco israeliano verso un Paese musulmano, ipotesi che provocherebbe contraccolpi in tutta la regione, è stato un fattore decisivo nell'avvio delle attuali pianificazioni operative. In un discorso a Cleveland il 20 di marzo, Bush ha dipinto l'ostilità di Ahmadinejad nei confronti di Israele come “una seria minaccia. Una minaccia alla pace mondiale”. Ha aggiunto Bush: “Sono già stato chiaro, voglio esserlo di nuovo: ricorreremo alla forza militare per proteggere il nostro alleato Israele”.

Richard Armitage [ex vice Segretario di Stato Usa, ndt ] ha sostenuto con me che ogni ipotesi di attacco militare americano dovrebbe tenere conto delle seguenti domande: “Cosa accadrebbe negli altri paesi islamici? Quale capacità l'Iran effettivamente ha di raggiungerci e minacciarci globalmente – di fatto, di potenzialità terroristiche? La Siria e il Libano aumenteranno la propria pressione su Israele? Quanto peserebbe sulla nostra già ridotta reputazione internazionale un nuovo attacco? E come reagirebbero Russia, Cina, e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite?”

L'Iran, un paese che oggi sforna quattro milioni di barili di petrolio ogni giorno, non avrebbe bisogno di sospendere la propria produzione per scombussolare i mercati petroliferi mondiali: gli basterebbe bloccare o minare lo Stretto di Hormuz, il passaggio largo 34 miglia attraverso il quale il petrolio del Medioriente raggiunge l'Oceano Indiano. Tuttavia, l'ex ufficiale della Difesa ritiratosi recentemente ha smentito le conseguenze strategiche di un tale azione. Mi ha raccontato che la Marina Usa potrebbe continuare a operare tramite operazioni di salvataggio l'uso di dragamine. “È impossibile bloccare il passaggio”, mi ha fatto notare. Il consulente del governo legato al Pentagono ha inoltre affermato che l'eventuale questione petrolifera potrebbe essere comunque gestita, ricordando come gli Stati Uniti dispongono sufficienti stock nelle loro riserve strategiche per far funzionare l'America per sessanta giorni. Tuttavia, le persone con cui ho parlato del settore petrolifero si sono mostrate meno ottimiste: un esperto del settore ritiene che il prezzo del greggio, in caso di crisi, salirebbe immediatamente fino a novanta o cento dollari al barile e anche oltre, a seconda della durata e della portata del conflitto.

Michael Samana, un politico libanese cristiano ed ex ministro a Beirut, mi ha riferito che una ritorsione iraniana si concentrerebbe sui giacimenti di petrolio e gas in Arabia Saudita, Qatar, Kuwait e Emirati Arabi Uniti. “Sarebbero a rischio”, ha detto Samana, “e ciò potrebbe dare vita alla vera jihad dell'Iran contro l'Occidente. Nel mondo regnerebbe il caos totale”.

L'Iran potrebbe sferrare un'ondata di attacchi terroristici in Iraq e altrove, con l'aiuto dell'Hezbollah. Il 2 aprile, il Washington Post ha riportato che i piani per prevenire questi eventuali attacchi “porterebbero via un sacco di tempo” alle agenzie di sicurezza Usa. “La più efficiente rete terroristica del mondo è rimasta neutrale rispetto alla «guerra al terrore» nel corso degli ultimi anni”: questa la dichiarazione del consigliere del Pentagono per quanto riguarda l'Hezbollah. “Una crisi li mobiliterebbe, e ci esporrebbe alle ostilità del gruppo che ha estromesso Israele dal Libano meridionale. Se attacchiamo l'Iran, l'Hezbollah non resterà seduto in panchina. A meno che Israele non se ne sbarazzi, essi verranno contro di noi”. (Quando ho posto domande a questo proposito al consulente del governo , questi mi ha risposto che, se l'Hezbollah lancerà razzi nel nord di Israele, “Israele e il nuovo governo libanese li annienteranno”.)

Il consulente ha proseguito: “Se attacchiamo, la metà meridionale dell'Iraq si illuminerà come una candela”. Gli americani, i britannici, e le altre forze di coalizione in Iraq si troverebbero in una situazione di rischio estremo di attacchi da parte delle truppe iraniane o delle milizie sciite operanti su indicazione iraniana (l'Iran, a maggioranza sciita, è legato ai maggiori partiti sciiti dell'Iraq.) Un generale di corpo d'armata ormai in pensione mi ha confessato che, nonostante gli 8000 soldati britannici nella regione, “gli iraniani potrebbero occupare Bassora con 10 mullah ed un camioncino con amplificatori”.

“Se gli americani attaccano”, mi ha detto l'influente diplomatico di Vienna, “Ahmadinejad sarà il nuovo Saddam Hussein del mondo arabo, ma con più credibilità e più potere. Gli Usa dovrebbero stringere i denti e sedersi al tavolo con gli iraniani”.

Il diplomatico ha proseguito: “Ci sono persone a Washington che sarebbero contrariate se trovassimo una soluzione. Stanno ancora contando sull'isolamento e sul cambio di regime. Lo credono sul serio”. E ha concluso: “Lo spiraglio è da cogliere adesso”.

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