Da La Repubblica del 22/06/2006
Originale su http://www.repubblica.it/2006/06/sezioni/cronaca/arresti-fortugno-mand...
Caposala all'ospedale di Locri, definì Fortugno "degnissima persona". E la sera del delitto andò a fare le condoglianze alla vedova
Marcianò, boss "amico di tutti" così dettava legge nella sanità
di Attilio Bolzoni

C'era stata una soffiata e ci avevano indicato Alessandro Marcianò come "uno dei mandanti" dell'omicidio del vicepresidente del consiglio regionale. Alle 8 del mattino lui aveva già letto l'articolo sui sospetti che lo riguardavano, è come se ci stesse aspettando. Le altre sue prime parole furono queste: "Io non ho paura di niente e di nessuno, se vogliono arrestarmi non scappo". E' un uomo alto e grosso Alessandro Marcianò, con due mani grandi e un collo taurino, la faccia larga e il naso schiacciato. Come spesso capita nei paesi del nostro Meridione, una vaga somiglianza gli aveva fatto appiccicare addosso un'"inciuria", un soprannome: lo chiamavano Celentano.
Per parte di moglie ha parenti di un certo "peso" ad Africo, una volta capitale dei sequestri di persona e oggi terra dove dicono che ci siano i trafficanti di coca più organizzati e ricchi d'Europa. Parenti che di nome fanno Bruzzaniti e Morabito.
In giro per Locri "Celentano" è uno che si è visto sempre poco. "In quel bar io non ci ho mai messo piede, né io né mio figlio Giuseppe abbiamo mai preso neanche un caffè", raccontò a proposito del bar Arcobaleno, il luogo dove secondo la ricostruzione del primo pentito dell'affaire Fortugno fu decisa l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale. Del figlio Giuseppe, che a marzo era ancora in galera per un traffico di droga e armi, non ne parlò volentieri.
All'improvviso cambiò espressione e la sua voce si fece dura, cattiva. E cominciò a dire: "Sapete come funziona? Sono sempre le stesse armi che fanno il giro dell'Italia e poi dicono che le hanno trovate addosso a questo o a quello".
Del sicario che aveva sparato a Francesco Fortugno non poteva sostenere che non lo aveva conosciuto mai. Era Salvatore Ritorto, quello stesso Salvatore che due giorni prima dell'omicidio era andato a trovarlo in ospedale. Amico di infanzia di suo figlio Giuseppe, quel ragazzo l'aveva visto crescere.
Conosceva tante gente Alessandro Marcianò. Conosceva bene anche quell'Enzo Cotroneo, il calciatore che un paio di notti prima della retata - gli arresti dei killer di Fortugno - avevano ammazzato come un cane sulla strada per Bianco. Nella primavera precedente qualcuno aveva colpito la saracinesca della sua sala giochi. Un avvertimento speciale, la stessa pistola poi avrebbe ucciso anche Fortugno.
Conosceva naturalmente anche la vittima, il medico che in una domenica dell'ottobre del 2005 affrontarono con le armi in pugno nel seggio dove si votava per le "primarie" dell'Unione. Un omicidio a urne aperte. Ci ricordò che Francesco Fortugno era andato anche al matrimonio di suo figlio Giuseppe. Nei paesi si conoscono tutti. E soprattutto in quell'ospedale si conoscevano tutti. Lui aveva il suo quartiere generale lì all'Asl, Francesco Fortugno era primario, sua moglie Maria Grazia era stata vice direttrice sanitaria. La vedova aveva la stanza proprio di fronte a quella di Alessandro Marcianò. "A due metri", ci disse lui. E aggiunse: "Tra noi ci sono stati sempre rapporti più che buoni".
Tranne una volta. Tranne alla vigilia delle "regionali" dell'anno scorso quando ci fu - hanno ricordato alcuni testimoni agli investigatori - una discussione molto animata tra "Celentano" e la signora Laganà. Il caposala per anni aveva appoggiato politicamente la famiglia dei Laganà, notabili di Locri, democristiani della vecchia guardia transitati poi nella Margherita. Ma in quelle elezioni Marcianò si schierò per il candidato Domenico Crea, un altro medico, un uomo politico molto chiacchierato sulla costa jonica della Calabria. E suo figlio Giuseppe trovò posto anche nella segreteria politica di Crea che poi fu il primo dei non eletti. E' entrato in consiglio a Reggio solo dopo la morte di Francesco Fortugno.
E Alessandro Marcianò quel giorno non era a Locri. Era ad Africo, dai parenti di sua moglie. Quando tornò nel suo paese vide il traffico impazzito. Era quasi il tramonto. Scese dall'auto e chiese cosa era accaduto. Glielo dissero. La stessa sera andò a fare il "visito" alla vedova Laganà, le condoglianze nella casa davanti al tribunale. E due giorni dopo si infilò il suo camice bianco ed entrò nella chiesa madre. Era in prima fila ai funerali di quella "degnissima persona".
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