Da Corriere della Sera del 27/06/2006
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2006/06_Giugno/27/franco...
Stagione in archivio
di Massimo Franco
È stato un lungo trimestre elettorale. Cominciato con il voto di aprile, e finito ieri con una partecipazione referendaria del 52,9 per cento, che ha dissolto i fantasmi ultradecennali di un'astensione superiore alla metà. Si tratta di una sorpresa felice, che smentisce le previsioni di un'opinione pubblica stanca e demotivata. E consegna l'immagine di un elettorato pronto a ribadire al Paese quello che vuole, nelle tre tappe del voto politico e amministrativo e del referendum sul federalismo; o, almeno, deciso a bocciare quanto ha deciso di lasciarsi alle spalle.
La sconfitta del «sì» sostenuto dal centrodestra non consente alibi. Declassa l'«asse del Nord» fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi ad una ridotta forte ma arroccata: lo conferma la vittoria dei «no» a Milano, Torino e Venezia. La Lega si aggrappa a Veneto e Lombardia, regioni in controtendenza, per ripetere che l'Italia è spaccata e i lumbard andranno avanti come prima. Ma non è così. Nel centrodestra, la fase delle velleità di rivincita sul governo di Romano Prodi è archiviata.
Le forzature parlamentari che hanno portato ad una riforma dettata dalla Lega agli alleati e al Parlamento si sono rivelate miopi. Non sono il «progetto eversivo» evocato dall'Unione; più banalmente, rappresentano un errore politico di Berlusconi e Bossi, che finisce per enfatizzare la crisi del centrodestra. Emerge tutta la fragilità del Cavaliere, capo del primo partito italiano; senza avversari nella sua alleanza; ma orfano di una strategia che vada oltre la sterile recriminazione sui brogli.
In questo senso, per la Casa delle libertà è stato un «trimestre terribile», che ha smontato le ambizioni di un'intera legislatura. Soprattutto, le ha mostrate friabili, basate com'erano su diktat imposti ad alleati deboli ma non convinti. Il 61,3 per cento dei «no» referendari, e il misero 38,7 dei «sì», non costringono solo il leghismo a meditare sulla strategia della spallata. Avvertono tutti che non si può toccare la Costituzione imboccando scorciatoie di schieramento.
È un monito anche per l'Unione, che inaugurò la prassi deteriore delle riforme autarchiche nel 2001. E le prime reazioni sembrano dire che la coalizione di Romano Prodi cercherà il dialogo. Ma l'impressione è che l'esito referendario accentuerà le spinte a blindare la Carta fondamentale, nell'Unione. È un riflesso prevedibile, a breve termine. Ma se si prolungasse, sarebbe percepito come immobilismo.
Il «no» del Paese è indirizzato ad un riformismo considerato costoso e approssimativo, non al cambiamento in sé. E per la maggioranza ormai i pericoli provengono dall'interno: qualche crepa in politica estera o in economia. Per l'Unione, si tratta di non esprimere soltanto un governo di reazione alla stagione berlusconiana. Sentirsi appagati per aver vinto elezioni e referendum che il centrodestra, probabilmente, aveva perso prima che cominciasse il suo «trimestre terribile», sarebbe la cosa peggiore.
La sconfitta del «sì» sostenuto dal centrodestra non consente alibi. Declassa l'«asse del Nord» fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi ad una ridotta forte ma arroccata: lo conferma la vittoria dei «no» a Milano, Torino e Venezia. La Lega si aggrappa a Veneto e Lombardia, regioni in controtendenza, per ripetere che l'Italia è spaccata e i lumbard andranno avanti come prima. Ma non è così. Nel centrodestra, la fase delle velleità di rivincita sul governo di Romano Prodi è archiviata.
Le forzature parlamentari che hanno portato ad una riforma dettata dalla Lega agli alleati e al Parlamento si sono rivelate miopi. Non sono il «progetto eversivo» evocato dall'Unione; più banalmente, rappresentano un errore politico di Berlusconi e Bossi, che finisce per enfatizzare la crisi del centrodestra. Emerge tutta la fragilità del Cavaliere, capo del primo partito italiano; senza avversari nella sua alleanza; ma orfano di una strategia che vada oltre la sterile recriminazione sui brogli.
In questo senso, per la Casa delle libertà è stato un «trimestre terribile», che ha smontato le ambizioni di un'intera legislatura. Soprattutto, le ha mostrate friabili, basate com'erano su diktat imposti ad alleati deboli ma non convinti. Il 61,3 per cento dei «no» referendari, e il misero 38,7 dei «sì», non costringono solo il leghismo a meditare sulla strategia della spallata. Avvertono tutti che non si può toccare la Costituzione imboccando scorciatoie di schieramento.
È un monito anche per l'Unione, che inaugurò la prassi deteriore delle riforme autarchiche nel 2001. E le prime reazioni sembrano dire che la coalizione di Romano Prodi cercherà il dialogo. Ma l'impressione è che l'esito referendario accentuerà le spinte a blindare la Carta fondamentale, nell'Unione. È un riflesso prevedibile, a breve termine. Ma se si prolungasse, sarebbe percepito come immobilismo.
Il «no» del Paese è indirizzato ad un riformismo considerato costoso e approssimativo, non al cambiamento in sé. E per la maggioranza ormai i pericoli provengono dall'interno: qualche crepa in politica estera o in economia. Per l'Unione, si tratta di non esprimere soltanto un governo di reazione alla stagione berlusconiana. Sentirsi appagati per aver vinto elezioni e referendum che il centrodestra, probabilmente, aveva perso prima che cominciasse il suo «trimestre terribile», sarebbe la cosa peggiore.
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