Da Osservatorio sui Balcani del 03/05/2006
Originale su http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/5622/1/51/

Turchia: vittime invisibili

Il fotografo Ahmet Isik ha percorso più di 4.000 km per documentare gli effetti dell’uso delle mine in una guerra ufficialmente mai combattuta, quella tra esercito turco e PKK. La mostra “Guardare il dolore degli altri”, presso la galleria KarsiSanat, a Istanbul, racconta le storie delle vittime

di Fabio Salomoni

Istanbul - Makbule, contadina di Nusaybin; Semsettin, guardiano di villaggio di Hakkari; un anonimo ex militare di Sinop e Mehmet, un ragazzino di 13 anni di Diyarbakir. Quattro persone diverse accomunate da uno stesso destino: l’avere incontrato sulla loro strada una mina oppure una bomba inesplosa che hanno radicalmente trasformato le loro esistenze. Makbule, Mehmet, Semsettin e l’anomino soldato, insieme ad altre 38 persone, hanno accettato di mostrare i loro corpi martoriati davanti all’occhio della macchina fotografica di Ahmet Isik. Isik è un ex reporter del quotidiano Radikal, con una lunga esperienza professionale nella Turchia orientale. L’idea di mettersi in marcia percorrendo più di 4.000 chilometri per documentare le tragiche conseguenze prodotte dalle mine gli è venuta lo scorso anno nel corso di un viaggio a Nusaybin, alla frontiera con la Siria: “Sono andato a Nusaybin e per la prima volta mi sono accorto di una realtà che è sotto gli occhi di tutti e che anch’io fino ad allora avevo ignorato: quante sono le persone colpite dalle mine”.

Il silenzio che circonda la realtà delle mine e delle loro conseguenze per la popolazione nasce, per Isik, fondamentalmente dall’incapacità di chiamare le cose con il loro nome: “Per vent’anni si è combattuta una guerra ma la versione ufficiale sostiene che nella storia della repubblica turca non c’è mai stata una guerra ma solo lotta al banditismo e al terrorismo. Nessuna guerra ma intanto le persone continuano a morire per le mine. Tutto questo mi è sembrato molto ironico”.

Il risultato di questa invisibilità è che le vittime si sentono abbandonate a sè stesse, condannate all’impossibilità di esprimere e vedere condiviso il proprio dolore: “Un bambino che ti abbraccia piangendo mentre ti racconta la sua storia è un’esperienza che ho vissuto molte volte. Quando vai là, la gente sente che per la prima volta qualcuno si interessa a loro”.

L’idea di Ahmet Isik di raccogliere le storie delle vittime e di fotografare i segni lasciati sui loro corpi dalle mine ha trovato il sostegno del progetto “Una giustizia per Tutti” promosso dall’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir e finanziato dalla rappresentanza in Turchia della Commissione Europea.

Il risultato è stata una mostra fotografica, “Guardare al dolore degli altri”, titolo ispirato ad un’opera di Susan Sontag, organizzata presso la galleria KarsiSanat (ControArte) di Istanbul, ed un catalogo. Volti, corpi e storie di quarantadue persone, scelte per rappresentare le centinaia di vittime di una guerra silenziosa. Storie in realtà molto simili che per la prima volta hanno trovato uno spazio per raccontarsi e mostrarsi.

Makbule è una contadina di Nusaybin. Nel 1992 stava pascolando gli animali quando ad un tratto “non so cosa è successo, c’è stata un’esplosione, sono svenuta”. Makbuke ha perso una gamba e da allora utilizza una protesi. Makbuke si considera però fortunata: “Hacer, la vicina che mi ha portato all’ospedale, l’anno successivo è morta per una mina”.

Semsettin era un guardiano di villaggio, le milizie create dallo stato in appoggio alle forze regolari nella guerra al PKK. Non ricorda la data in cui, uscito in perlustrazione, in cima ad una collina ha calpestato una mina. Ha perso il piede sinistro e la foto lo ritrae seduto su di una panchina mentre mostra il suo moncherino: “Non avendo soldi non ho potuto permettermi una protesi. Lo stato non ha pagato le spese”.

L’anonimo militare originario di Sinop, sulla costa del Mar Nero, fotografato mentre mostra la sua protesi, nel 1995 era di guardia in una zona di campagna nel sud-est: “Sono finito sopra una mina, l’avevano posata nella notte. Io ero davanti al gruppo ed è toccato a me, ho perso una gamba. Niente sarà più come prima”.

L’uso delle mine non è quindi solo appannaggio dell’esercito turco. Guardando la lunga lista delle vittime per esplosioni tra il 2000 ed il 2005 affissa all’ingresso della mostra, balza immediatamente agli occhi l’impressionante incremento registrato nell’ultimo anno del numero di militari uccisi o feriti da una mina. “Il mio non è un approccio unilaterale. Non voglio accusare una delle due parti. Anche il PKK usa le mine, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo”. Non si conoscono le mappe dei luoghi minati dal PKK e tantomeno il numero delle mine in possesso dell’organizzazione.

Alcuni visitatori hanno criticato il fatto che, delle 42 persone ritratte, solamente due sono ex militari. “In realtà ho contattato 12 ex soldati, spiega Isik, ma dieci di loro hanno rifiutare di farsi fotografare. ‘Tu fai il gioco dei separatisti’, mi hanno detto. Non mi sono arrabbiato, anche se abbiamo posizioni molto diverse ho cercato di capirli, sono stati lasciati soli. Uno di loro mi ha confessato: passo le notti a rimuginare, a chiedermi perchè ho perso la gamba. Ad un certo punto devo smettere di pensare perchè altrimenti mi arrabbio molto”.

L’utilizzo delle mine antiuomo, secondo i dati forniti da LandMine Monitor, in Turchia risale al 1955, quando si cominciarono a posare nelle regioni di confine, in particolare con Siria, Irak ed Armenia, per ostacolare il contrabbando transfrontaliero, in particolare di carburante e animali. A partire dalla fine degli anni ’80, “nel quadro della lotta al terrorismo”, il ricorso alle mine si è fatto massiccio. Secondo un rapporto presentato dalla Turchia alle Nazioni Unite, nelle provincie di Sanliurfa, Gaziantep (Anatolia sud-orientale) e Ardahan (Anatolia Nord-orientale) sarebbero state posate un totale di 587.000 mine antiuomo.

I dati presentati alla mostra rivelano che attualmente sarebbero un milione le mine antiuomo posate in territorio turco e tre milioni quelle ospitate nei depositi militari.

Nel 1996 la Turchia ha annunciato di avere interrotto la produzione di mine e nel 2001 LandMine Monitor l’ha cancellata dalla lista dei paesi produttori. Nel 2003 la Turchia ha firmato la Convenzione di Ottawa con la quale i paesi firmatari si impegnano a non produrre e vendere mine ed a bonificare i terreni minati.

A proposito di quest’ultimo punto le osservazioni di Isik sono molto critiche: “Alcune zone di confine sono state bonificate ma non è stato un lavoro accurato. In realtà il problema è che spesso mancano le mappe dei campi minati”. Recentemente è stata indetta una gara d’appalto internazionale per promuovere la bonifica di alcune zone di confine: alla ditta vincitrice, dopo la bonifica andrà il diritto di utilizzare i terreni bonificati per agricoltura biologica. “Per una serie di ostacoli però per il momento non si è concluso nulla”, nota Isik. In realtà le voci di un interesse di alcune aziende agro-alimentari israeliane per il progetto hanno provocato nel paese accese polemiche. Nei giorni scorsi il presidente della Camera di Commercio di Ankara aveva definito pericoloso dal punto di vista strategico che aziende israeliane possano in futuro avere il controllo di ampie porzioni di territorio nell’Anatolia Sud-Orientale.

Il Trattato di Ottawa impegna anche i paesi firmatari a garantire cure mediche e riabilitazione per le vittime delle mine. Anche su questo punto molto resta da fare. A Diyarbakir, ricorda Isik, presso l’Università del Tigri “esiste un solo tecnico di buona volontà che prepara delle protesi, ed è tutto. In realtà il migliore centro di riabilitazione è l’ospedale militare di Ankara. Ci vorrebbe qualcosa di simile anche ad Est. Uno degli obbiettivi di questa mostra è quello di cercare di raccogliere fondi per un centro di riabilitazione”.

Le mine non sono l’unica fonte di pericolo. Mehmet aveva 13 anni nel 2004. Dopo la scuola era andato a dar da mangiare agli animali nel suo villaggio, vicino a Diyarbakir. “Ho trovato un pezzo di ferro. Aveva un interessante bottone rosso ed io l’ho colpito con una pietra. E’ esploso. Mio zio mi ha portato in ospedale. Ho perso la mano sinistra”. Bombe a mano, razzi e proiettili inesplosi sono altrettanto pericolosi delle mine. L’anno scorso, racconta Isik, a Silopi un bambino ha trovato una bomba in un’area militare e l’ha portata a casa. Spesso infatti rivendere i rottami di ferro rappresenta un fonte di reddito per molte famiglie. “La bomba però è esplosa dentro casa causando la morte di un bambino ed il ferimento di altri sette componenti della famiglia”.

Il pericolo dei proiettili inesplosi non riguarda però solamente le persone che vivono nell’Anatolia sud-orientale. Sempre l’anno scorso, un ragazzo di sedici anni è morto e quattro amici sono rimasti feriti per l’esplosione di un ordigno che avevano raccolto nei pressi di un poligono militare nella periferia di Istanbul.

Sensibilizzare l’opinione pubblica turca sembra essere però impresa tutt’altro che facile. Il giorno dopo la chiusura della mostra era in programma un dibattito aperto al pubblico. Ahmet Isik, guardando la sala desolatamente vuota, commenta sconsolato: “Non vogliono sapere la verità. Spesso quando parlo di queste cose molti mi chiedono: ma in Turchia ci sono delle mine?”

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