Da OneWorld del 08/07/2006
Originale su http://unimondo.oneworld.net/article/view/136134/1/

Un altro modo di fare cooperazione

di Cinzia Agostini

In un momento in cui le ong italiane manifestano il bisogno di chiarezza tra aiuti umanitari, cooperazione allo sviluppo e altri tipi di intervento internazionale e aumentano gli interrogativi sullo spartiacque dell'agire cooperativo ci confrontiamo con una cooperazione (nel senso letterale dell'operare insieme per il bene comune) senz'altro atipica, che segue quello che, per facilità di comunicazione, viene chiamato "approccio comunitario". La comunità in questione è il Saint Martin, nella città di Nyahururu, poco distante dal monte Kenya dell'omonimo stato africano, un modello unico al mondo che vive seguendo la regola "Only through community" (Solo attraverso la comunità). Il Saint Martin lavora con la convinzione che tutte le comunità abbiano delle risorse interne e suo compito sia quello di mobilitare le persone, con le loro capacità di solidarietà e condivisione. Lavora quindi sulle persone "abili", e non su quelle in stato di bisogno, affinché ci sia una presa in carico personale e comunitaria dei più vulnerabili.

«La soluzione viene ricercata sempre dalla comunità e all'interno della stessa» spiegano gli operatori. In questo modo si sono sviluppati cinque programmi specifici: per le persone con disabilità; prevenzione dell'aids e l'abuso di alcol e droghe; ragazzi di strada e con disagi; nonviolenza e tutela dei diritti umani; risparmio e microcredito. Ce ne parla il direttore, don Gabriele Pipinato, missionario della diocesi di Padova. «L'idea dell'approccio è nata insieme, dal confronto di più persone tra loro e dalla conoscenza del tessuto locale, dei Kikuyu in particolare. Abbiamo notato delle forme di auto-aiuto preesistenti, che ci hanno ispirato, come l'harambè, la raccolta di denaro per aiutare i poveri, da loro sintetizzata con il detto eloquente "Siamo insieme come i grani di polenta".

Nella comunità di Nyahururu non c'era un sistema di organizzazione tale da far ruotare la comunità intorno alla persona disabile, ma c'erano i presupposti». Racconta che, all'inizio, quando è partito dall'Italia, non aveva questo ideale in mente: «Ho cominciato facendo il missionario "normale", per aiutare i poveri, le persone bisognose. La svolta è venuta quando ho cominciato a vedere e a vivere il povero non come un peso, ma come un dono. Oggi sono convinto che la persona indebolita e vulnerabile non è un ostacolo ma una grazia, una possibilità, non solo per me, ma per tutta la comunità».

La chiave dell'approccio comunitario sta qui: nella convinzione che il povero non è un sacrificio. «A fare i sacrifici per il bene degli altri dopo un po' ci si stanca - continua Pipinato. Se invece parto dal presupposto che sto facendo qualcosa e in cambio ne avrò un dono, cambia tutta la prospettiva e non ci si ferma più. Racconto un episodio che mi ha cambiato la vita: è venuta un giorno in comunità una famiglia che chiedeva di prendere in affidamento un bambino di strada. Proprio in quel momento sono venuto a sapere che erano morti di aids entrambi i genitori di una famiglia di dieci figli, che noi conoscevamo perché l'ultimo nato aveva una grossa disabilità; i primi nove bambini avevano trovato chi li accudisse, il più piccolo nessuno lo voleva.

La mia soluzione, da "missionario", fu pensare di chiedere a quella famiglia di tenere un paio di giorni il bambino, per portarlo, la settimana seguente, nel centro per ragazzi con disabilità gestito dalle suore di madre Teresa a Nairobi. Una grandissima mancanza da parte mia: in cuor mio avevo già deciso che nella mia comunità nessuno fosse così generoso da prendersi cura di quel bambino.

Nell'emergenza, dovevo "sistemarlo" perché era un problema, dovevo risolvere "il caso". Come è andata? Quella coppia di genitori mi ha chiesto di prendere con sé quel bambino per sempre e un anno dopo è tornata per ringraziarmi perché, con l'arrivo di quel bambino, era diventata una famiglia migliore, più generosa, più aperta. Se pensiamo che il povero sia un dono che migliora la famiglia e la comunità, non possiamo privare la comunità di questo dono. E da qui si innesca un meccanismo, anche sulla base dell'imitazione di questi esempi, dirompente».

Nel corso degli anni c'è stata un'evoluzione dell'approccio comunitario (che oggi coinvolge in Saint Martin 1028 volontari). Per esempio, nessun operatore per disabili si reca da un disabile se non viene accompagnato da almeno un volontario. Nonostante la fretta, nonostante l'efficientismo. Anche nelle emergenze, prima di fare qualsiasi cosa, gli operatori si chiedono cosa possa fare la comunità. «Il nostro è un modello che parte dal cuore, per cui potrebbe essere esportato ovunque, Sicuramente in altre parti del Kenya, dell'Africa, ma forse anche in altre zone del mondo, considerato che il target del nostro agire sono gli "abili" della società. Noi siamo facilitati dal sapere esattamente quanti bambini seguiamo, quante persone con disabilità; ma un tentativo si potrebbe comunque fare, quanto meno nella formazione di quelle che per noi stanno diventando figure essenziali dei programmi, i mobilizzatori della comunità, persone cioè che sensibilizzano le persone locali sui vari problemi, in maniera costante e formata, creando sempre più coinvolgimento e consapevolezza».

Una metodologia che avrebbe molto da insegnare anche alla nostra cooperazione. «Quando in Kenya c'è stata l'emergenza siccità - conclude il direttore di Saint Martin - le grosse Organizzazioni sono intervenute con il loro programma di distribuzione del cibo. Abbiamo chiesto se potevamo far partecipare direttamente la gente, coinvolgendola nella costruzione di un lago che avrebbe potuto garantire l'acqua e il cibo per un po'. Siamo stati trattati da sfruttatori. In questo modo, però, non si salvaguarda la dignità della persona: nessuno è così povero da non avere niente da offrire, e se non si consente a questa persona di offrire nulla, neppure il suo tempo, non è rispettoso della sua dignità. Magari siamo noi a non capire cosa i poveri hanno da offrirci, ma, in questo caso, è un problema nostro».

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