Da La Stampa del 21/07/2006
Originale su http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200607articoli/7969...
Vite spezzate da una violenza cieca che si e' scatenata intorno a loro
Il sogno democratico di Fahti, finito con lui sepolto dalle macerie
di Giuseppe Zaccaria
BEIRUT. La primavera dell'anno scorso Fahti Fahkieh, 25 anni, era fra il milione di ragazzi che invadevano piazza dei Martiri nella protesta per l'assassinio di Rafik Hariri, uno di quelli che pensavano di costruire un Libano nuovo. Era uno sciita come ce ne sono molti qua: famiglia d'origine modesta ma laurea in ingegneria, nessuna simpatia per Hezbollah e speranze del «Partito del futuro», ottima conoscenza della lingua inglese tanto che era stato immediatamente ingaggiato come interpete.
E' ricomparso una settimana fa nell'albergo dei giornalisti occidentali cercando nuovamente lavoro. Era abbastanza depresso: «Pensa che stavo aspettando un permesso di lavoro per il Canada dove un mio cugino si è trasferito da tempo e invece di cambiare mondo per costruirmi un futuro sono rimpiombato nel passato. Io e molti ragazzi della mia età abbiamo la senzazione di vedere materiali d'archivio che scorrono in tv e invece sono cose reali, accadono proprio adesso e proprio a noi».
Un anno fa, come si usa da queste parti, la famiglia Fahkyeh aveva invitato il datore di lavoro del figlio a prendere un thè nell'appartamento di famiglia a Ra'as Al Naaba, zona sciita a ridosso del centro. Una casa modesta, padre anziano ancora con un lavoro di ciabattino, una madre molto grassa sulla sessantina e cinque ragazzini dai 6 ai 18 anni, i più piccoli nipotini rimasti orfani. Il compenso da interprete di Fahti equivaleva quasi a metà del reddito del capofamiglia e forse anche per questo il patriarca dissentiva fortemente dalle opinioni del figlio modernista, ricordando le guerre di prima lui venerava Nasrallah e le sue camicie nere. Hezbollah dal suo punto di vista pareva simboleggiare una sorta di riscatto.
Con le prime bombe la famiglia aveva deciso di lasciare Ra'as Al Naaba. Partenza sabato approfittando del furgone di un cugino, padre e ragazzini ammassati sul cassone mentre la madre grassa era entrata a fatica nella cabina: destinazione Srifa, un villaggio non distante da Baalbek dove la madre ha una cugina. «Li ho accompagnati - raccontava Fahti - stringendomi su un cassone che traboccava di materassi ripiegati e bottiglie d'acqua, sui tornanti di montagna mia madre si è sentita male e anche i nipotini vomitavano. L'alloggio poi... la cugina ha potuto accogliere i miei solo in una specie di scantinato, la parte più grezza di una casa non ancora finita, alla periferia, però almeno intorno ci sono campagne e trovare da mangiare non è troppo difficile, io ho preferito rientrare a Beirut sia per approfittando del furgoncino sia per cercare lavoro».
Dormire a Ra'as Al Naaba però non era più possibile e Fahti aveva dovuto giurare alla madre che non sarebbe rientrato nelle aree bombardate. «Fra l'altro - raccontava - mi hanno detto che in casa nostra Hezbollah ha piazzato d'imperio una trentina di sfollati» e allora il giovanotto aveva trovato rifugio da un amico ai margini dei quartiere di Hamra, zona commerciale. L'amico fa il commesso in un negozio di abbigliamento e anche se adesso i negozi sono vuoti il proprietario maronita gli ha permesso di restare nella stanzetta che gli ha destinato in un ammezzato. Ogni mattina Fahti tornava all'albergo in cerca di ingaggio e con le novità della notte. «Ad Hamra l'elettricità arriva per 5-6 ore al giorno e siamo già fortunati, a Sud manca del tutto e sono saltati i telefoni, funziona ancora la rete cellulare e qualche amico ti può dare notizie. Stamani uno mi ha risposto per dire: "Non venire qua per nessuna ragione al mondo, siamo circondati da macerie e non possiamo neanche uscire perchè da una parte gli israeliani ci tirano bombe in testa e dall'altra un cordone di Hezbollah ferma tutti i maschi adulti, dicono che dobbiamo rimanere qui per la resistenza». Le notizie più preziose riguardavano la vita di tutti i giorni, la progressiva dissoluzione di una metropoli: non c'è più un negozio aperto, soltanto in centro al mattino funzionano due aree commerciali però trovare cibo è quasi impossibile, l'ultimo supermercato di Ashafieh ha esaurito le scorte, l'acqua comincia a diventare un problema, nella zona Sud sono saltate le tubature. Per telefono la famiglia riparata a Srifa diceva che anche lì l'acqua cominciava a scarseggiare e che i camion che la trasportano sono coperti da teloni e adesso non girano più per paura di essere bombardati. La madre soffre di ipertensione e ha bisogno di medicine che nella Beka'a non si trovano, ha provato a chiedere a un capo Hezbollah della zona e quello ha promesso di interessarsi.
Due sere fa Fahti ha annunciato: «Finalmente ho trovato una farmacia aperta, torno nella Beka'a a portare la medicina e vedere come stanno». Ieri mattina un giovanotto è entrato in albergo con l'aria stravolta per dire che Fahti è morto con tutti i familiari nel bombardamento della casa di campagna. Accanto abitava un dignitario del «partito di Dio».
E' ricomparso una settimana fa nell'albergo dei giornalisti occidentali cercando nuovamente lavoro. Era abbastanza depresso: «Pensa che stavo aspettando un permesso di lavoro per il Canada dove un mio cugino si è trasferito da tempo e invece di cambiare mondo per costruirmi un futuro sono rimpiombato nel passato. Io e molti ragazzi della mia età abbiamo la senzazione di vedere materiali d'archivio che scorrono in tv e invece sono cose reali, accadono proprio adesso e proprio a noi».
Un anno fa, come si usa da queste parti, la famiglia Fahkyeh aveva invitato il datore di lavoro del figlio a prendere un thè nell'appartamento di famiglia a Ra'as Al Naaba, zona sciita a ridosso del centro. Una casa modesta, padre anziano ancora con un lavoro di ciabattino, una madre molto grassa sulla sessantina e cinque ragazzini dai 6 ai 18 anni, i più piccoli nipotini rimasti orfani. Il compenso da interprete di Fahti equivaleva quasi a metà del reddito del capofamiglia e forse anche per questo il patriarca dissentiva fortemente dalle opinioni del figlio modernista, ricordando le guerre di prima lui venerava Nasrallah e le sue camicie nere. Hezbollah dal suo punto di vista pareva simboleggiare una sorta di riscatto.
Con le prime bombe la famiglia aveva deciso di lasciare Ra'as Al Naaba. Partenza sabato approfittando del furgone di un cugino, padre e ragazzini ammassati sul cassone mentre la madre grassa era entrata a fatica nella cabina: destinazione Srifa, un villaggio non distante da Baalbek dove la madre ha una cugina. «Li ho accompagnati - raccontava Fahti - stringendomi su un cassone che traboccava di materassi ripiegati e bottiglie d'acqua, sui tornanti di montagna mia madre si è sentita male e anche i nipotini vomitavano. L'alloggio poi... la cugina ha potuto accogliere i miei solo in una specie di scantinato, la parte più grezza di una casa non ancora finita, alla periferia, però almeno intorno ci sono campagne e trovare da mangiare non è troppo difficile, io ho preferito rientrare a Beirut sia per approfittando del furgoncino sia per cercare lavoro».
Dormire a Ra'as Al Naaba però non era più possibile e Fahti aveva dovuto giurare alla madre che non sarebbe rientrato nelle aree bombardate. «Fra l'altro - raccontava - mi hanno detto che in casa nostra Hezbollah ha piazzato d'imperio una trentina di sfollati» e allora il giovanotto aveva trovato rifugio da un amico ai margini dei quartiere di Hamra, zona commerciale. L'amico fa il commesso in un negozio di abbigliamento e anche se adesso i negozi sono vuoti il proprietario maronita gli ha permesso di restare nella stanzetta che gli ha destinato in un ammezzato. Ogni mattina Fahti tornava all'albergo in cerca di ingaggio e con le novità della notte. «Ad Hamra l'elettricità arriva per 5-6 ore al giorno e siamo già fortunati, a Sud manca del tutto e sono saltati i telefoni, funziona ancora la rete cellulare e qualche amico ti può dare notizie. Stamani uno mi ha risposto per dire: "Non venire qua per nessuna ragione al mondo, siamo circondati da macerie e non possiamo neanche uscire perchè da una parte gli israeliani ci tirano bombe in testa e dall'altra un cordone di Hezbollah ferma tutti i maschi adulti, dicono che dobbiamo rimanere qui per la resistenza». Le notizie più preziose riguardavano la vita di tutti i giorni, la progressiva dissoluzione di una metropoli: non c'è più un negozio aperto, soltanto in centro al mattino funzionano due aree commerciali però trovare cibo è quasi impossibile, l'ultimo supermercato di Ashafieh ha esaurito le scorte, l'acqua comincia a diventare un problema, nella zona Sud sono saltate le tubature. Per telefono la famiglia riparata a Srifa diceva che anche lì l'acqua cominciava a scarseggiare e che i camion che la trasportano sono coperti da teloni e adesso non girano più per paura di essere bombardati. La madre soffre di ipertensione e ha bisogno di medicine che nella Beka'a non si trovano, ha provato a chiedere a un capo Hezbollah della zona e quello ha promesso di interessarsi.
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