Da Pagine di Difesa del 24/07/2006
Originale su http://www.paginedidifesa.it/2006/galgani_060724.html

Stati Uniti e sicurezza energetica

di Pier Francesco Galgani

Il 17 luglio scorso al termine dell'incontro del G8, la riunione che ogni anno vede riuniti in una località diversa i rappresentanti delle otto maggiori nazioni industrializzate per discutere di problemi di rilevanza mondiale, il presidente americano George W. Bush e quello russo Vladimir Putin hanno firmato un accordo per la reciproca cooperazione nel campo dell'uso civile dell'energia atomica.

Nel testo dell'intesa si sostiene che la sicurezza energetica rappresenta oggi un elemento insostituibile per lo sviluppo economico delle nazioni e per il mantenimento della stabilità internazionale. In questo contesto l'uso pacifico dell'energia atomica può essere lo strumento migliore per ottenere elettricità senza emissione di gas serra e per soddisfare la crescente domanda mondiale di energia. Le due nazioni si sono quindi impegnate a garantire massima libertà di accesso alla tecnologia dell'atomo ai Paesi in via di sviluppo e si sono accordati per una sostanziale divisione dei compiti: da una parte la Russia si impegnerà allo stoccaggio delle crescenti scorie nucleari e gli Usa intensificheranno gli sforzi per la ricerca sul riutilizzo a scopi di combustibile di quelle stesse scorie.

Tralasciando le conseguenze pur rilevanti sui rapporti tra Washington e Mosca di un simile accordo, esso rappresenta un tassello importante nella nuova strategia americana a favore della sicurezza energetica nazionale. L'accento posto da Bush sull'energia nucleare è solo l'ultima di una serie di rilevanti considerazioni e valutazioni che la sua amministrazione ha iniziato a fare sul tema energetico sin dall'inizio dell'anno. Nel discorso sullo Stato dell'Unione, il presidente disse che gli Stati Uniti apparivano ormai “drogati dal petrolio” e sin da allora aveva affermato la necessità di ridurre la dipendenza dal greggio per avviare una seria ricerca sullo sviluppo di fonti alternative come l'idrogeno o il potenziamento nell'utilizzo dell'energia nucleare.

Soprattutto in un momento come quello attuale in cui i prezzi del petrolio sono aumentati vertiginosamente, per varie ragioni, dalla crescita della domanda di Paesi come Cina e India, a ritardi nell'ampliamento delle strutture di raffinazione, e hanno iniziato a incidere in modo sensibile sui costi di produzione e sullo stesso indice di inflazione dei paesi più dipendenti. Negli ultimi sette anni il prezzo di un barile di greggio è salito di oltre il 400 per cento, dai 10 dollari del 1999 ai 50 dell'aprile 2005 fino agli attuali 75 dollari.

La guerra in Iraq avrebbe dovuto garantire una maggiore sicurezza negli approvvigionamenti petroliferi e quindi una riduzione dei prezzi, ma le cose sono andate in maniera diversa: lo scacchiere mediorientale, da cui l'occidente ricava la maggior parte delle sue forniture energetiche, è stato reso ancora più instabile dall'intervento americano. Se questo è vero, non bisogna però dimenticare che se in Iraq la “guerra al terrore” non è riuscita a ottenere i risultati sperati, l'obiettivo è stato raggiunto in molte ex-repubbliche dell'Unione Sovietica, ricche di petrolio e gas naturale. In Azerbaigian e Uzbekistan gli Stati Uniti, sfruttando la retorica della lotta al terrorismo, hanno ottenuto una serie di basi militari essenziali per controllare il flusso di risorse energetiche provenienti da queste zone. Grazie al petrolio e al gas naturale, la regione che si estende dal Caucaso all'Afghanistan è tornata a essere quindi il terreno di quello scontro tra opposte politiche di potenza, opposti spionaggi che oltre un secolo fa Rudyard Kipling aveva definito “The Great Game”.

Negli ultimi tempi anche l'Africa - in particolare la sua regione occidentale, in cui si trovano ampie riserve di idrocarburi - è stata oggetto di vari accordi con Washington, ma questi non appaiono sufficienti a garantire la piena sicurezza energetica del gigante statunitense, anche tenendo conto della contemporanea competizione con la Cina per le medesime fonti energetiche. Le stesse tradizionali riserve del Sudamerica appaiono ormai in pericolo. Dall'America Latina gli Usa traggono il 30 per cento delle loro importazioni di risorse energetiche. Secondo uno studio del comando sud dell'esercito americano, pubblicato lo scorso 25 giugno dal Financial Times, le future forniture di idrocarburi verso gli Usa potrebbero essere messe in pericolo dal crescente nazionalismo energetico che va sempre più prendendo piede nella regione.

Lo studio riporta vari esempi: la nazionalizzazione dei giacimenti petroliferi e di gas naturale decisi dalla Bolivia di Evo Morales in maggio; la recentissima decisione del governo dell'Ecuador di escludere dai propri pozzi la statunitense Occidental Petroleum; la scelta dell'esecutivo di Caracas di raddoppiare le tasse governative sui proventi petroliferi delle società estrattive. Proprio questo ultimo caso viene considerato il più gravido di conseguenze. Un contemporaneo rapporto del Government Accountability Office (un organismo del Congresso) ha stimato che un'eventuale interruzione per almeno sei mesi delle importazioni petrolifere statunitensi dal Venezuela potrebbe causare un incremento del prezzo del greggio di oltre 11 dollari al barile e ridurrebbe il prodotto interno lordo della nazione di 23 miliardi.

Se quindi la sicurezza energetica statunitense non può essere garantita solo dal petrolio e dagli altri idrocarburi, a Washington si sono moltiplicate le spinte per potenziare la ricerca a favore delle fonti energetiche alternative. Dopo il riferimento al nucleare nel discorso sullo Stato dell'Unione, Bush è tornato sull'argomento il 24 maggio in un discorso tenuto a Pottstown in Pennsylvania. Proprio nello stato in cui nel 1979 avvenne l'incidente nucleare di Three Mile Island, il presidente ha sostenuto che se gli Stati uniti vogliono mantenere la sicurezza economica - e l'attuale regime di consumi - è necessario costruire un massiccio numero di nuove centrali atomiche. Bush notava che a partire dagli anni 70 la Francia aveva costruito ben 58 nuove centrali e che il 78 per cento dell'energia elettrica del Paese proveniva dalla fissione atomica, mentre negli Usa non ne era stata costruita nemmeno una. “Per queste ragioni - concludeva il presidente - i francesi non sono costretti a preoccuparsi del flusso di gas naturale proveniente dall'estero tanto quanto gli americani”. Gli alti prezzi del petrolio, uniti alle turbolenze politiche nelle maggiori zone di produzione, stanno conducendo gli Usa a pensare seriamente a sviluppare non solo l'apporto dell'energia nucleare, ma anche l'uso dell'etanolo vegetale come carburante e combustibile.

Sono proprio gli alti prezzi degli idrocarburi a rendere competitivi tali nuove fonti energetiche. Secondo Monty Shaw, rappresentante dell'Iowa Renewable Fuels Association, quando un barile di petrolio costava solo dieci dollari, ricavare etanolo dai vegetali non era conveniente economicamente; quando poi il costo del petrolio è salito a oltre 45 dollari al barile, l'etanolo ha iniziato a diventare competitivo; ora, con un barile oltre 70 dollari, coltivare e raffinare i vegetali adatti per ottenere etanolo è divenuto un vero affare. Il recente successo in questo campo del Brasile di Lula da Silva insegna e l'amministrazione ha deciso di incrementare del 22 per cento i fondi destinati allo sviluppo di energie pulite e rinnovabili come quelle ottenibili dall'etanolo.

Seguire questa strada potrebbe avere ricadute positive non solo in termini di sicurezza energetica nazionale, ma potrebbe influire anche sulle sorti elettorali del partito del presidente nelle prossime elezioni di mid term di novembre e in prospettiva con le elezioni presidenziali del 2008. Lo sviluppo dell'uso di fonti energetiche pulite come quelle fornite dall'etanolo significherebbe assegnare considerevoli risorse federali alla maggior parte degli stati agricoli della cosiddetta fascia della Bible Belt, già roccaforte della destra repubblicana, ma in cui il pessimo andamento della guerra in Iraq ha sensibilmente ridotto il sostegno al partito del presidente.

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