Da La Repubblica del 19/05/2003

Parla il comandante che speronò il battello dei clandestini. Era la notte di Natale del 1996 nel canale di Sicilia

"Non sarò il solo a pagare per i 283 morti del naufragio"

di Giovanni Maria Bellu

PARIGI - Youssef El Hallal, 44 anni e 283 omicidi volontari, si mette in posa tra i due gendarmi di guardia al palazzo di giustizia di Parigi. Non sanno, i due poliziotti, che questo cordiale turista libanese è, per la magistratura italiana, il responsabile della più grave sciagura navale avvenuta nel Mediterraneo dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Non sanno che è ricercato dal 3 gennaio del 2002 e che, sei mesi fa, è stato dichiarato ufficialmente "latitante".

Non sanno, ma nessuno potrà accusarli di negligenza. L'Italia, il paese che ufficialmente considera El Hallal una delle figure di maggior spicco dell'organizzazione internazionale che traffica esseri umani, che l'accusa di un numero di omicidi inferiore solo a quello contestato a Eric Priebke, il boia delle fosse Ardeatine, non l'ha mai cercato. Come se quei 283 indiani, pakistani e tamil morti non fossero in realtà mai morti. Come se quella tragedia fosse ancora il "naufragio fantasma". Così ora El Hallal ha deciso di venire allo scoperto. Di difendersi e di accusare.

"Non voglio essere il solo dice con rabbia a pagare per un'attività che coinvolge centinaia di persone potenti: armatori, diplomatici, dirigenti di polizia di tutti i paesi del Mediterraneo. Quel naufragio è stato un incidente tragico avvenuto durante un business riconosciuto e tollerato dai governi".
Era la notte tra il 25 e il 16 dicembre del 1996. El Hallal comandava la "Yiohan", armatore greco, ciurma siriana, bandiera dell'Honduras. Merce trasportata: esseri umani: circa 450. Verso le due del mattino, la vecchia motonave fabbricata in Polonia nel 1964 si mise in stand by nel Canale di Sicilia in attesa d'una barca più piccola, idonea a raggiungere la costa. Arrivò alle tre di notte da Malta. Trecento migranti, estenuati da un viaggio che per alcuni di loro era cominciato tre mesi prima, si catapultarono sulla lancia maltese che, per l'eccessivo carico, per il mare troppo mosso, per un impatto accidentale con l'ammiraglia, colò a picco. Morirono in 283. La "Yiohan" fuggì col resto della merce, 175 persone che furono scaricate il 29 dicembre sulle coste del Peloponneso. Arrestati dalla polizia greca, i superstiti raccontarono in un primo momento non creduti la tragedia della notte di Natale. Nacque così la leggenda del "naufragio fantasma".


Ora El Hallal è sulla terrazza dell'Hilton di Avenue de Suffren. Si mette in posa davanti alla gigantesca sagoma della Tour Eiffel. Così, tanto per eliminare ogni dubbio sul luogo in cui ci troviamo. Ma è uno scrupolo. Le autorità italiane da anni conoscono il suo indirizzo e il luogo di residenza francese. Sanno tutto, compreso il numero civico. Infatti ogni tanto gli scrivono una lettera. Il libanese ne ha una piccola collezione. Ed ecco, datata 27 febbraio del 2001, una "assicurata a ricevuta di ritorno" del nostro ministero della Giustizia, dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.

Ed ecco ancora carta intestata del tribunale di Siracusa, timbro postale 26 novembre 2001 - la comunicazione del deposito in cancelleria di un decreto.
El Hallal è consapevole del rischio che corre. Sa che queste fotografie potranno porre fine alla sua tranquilla latitanza. E il suo legale, l'avvocato Francesco Comi, glielo fa presente con fermezza: "Youssef gli dice sei consapevole del fatto che..." Ne è consapevole. Ma, a quanto pare, il carcere gli fa meno paura dell'attuale incredibile condizione.

Eppure non se la passa male: vive con una francese a duecento chilometri da Parigi, sbarca il lunario facendo piccoli commerci di oggetti d'antiquariato, è conosciuto e stimato nella piccola città dove risiede. "Guardi...". E' il ritaglio di un giornale locale dell'11 febbraio scorso: il 'latitante', giacca e cravatta, riceve un diploma d'onore come donatore di sangue benemerito.

"Sì, lo faccio da anni dice l'uomo accusato della strage e penso di aver contribuito a salvare molte vite".
El Hallal viveva in Francia, al solito indirizzo, anche tre anni fa. Ogni tanto si spostava nel sud, a Marsiglia, dove collaborava con la comunità di Emmaus (mostra la tessera di socio). Nel maggio del 2000 si presentò al consolato greco chiedendo un visto per tornare in patria, dove pure era ricercato per il naufragio di Natale. "Volevo finire in carcere, ma vicino a casa mia".

Le autorità consolari gli suggerirono di lasciar perdere e lo cacciarono dagli uffici. "A giugno venne mia moglie coi bambini. Le chiesi di andare al consolato. E' greca, e speravo che l'avrebbero ascoltata. Invece poche ore dopo la fecero salire su un aereo e la rispedirono ad Atene assieme ai miei figli che da allora non ho più visto. Io fui arrestato, ma su ordine dell'Italia. La procura di Siracusa, venni a sapere, aveva chiesto la mia estradizione. Mi accusavano di omicidio plurimo colposo 'colposo', sottolinea e di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Protestai, dissi al magistrato francese che il naufragio non era avvenuto nelle acque italiane. Dovevo andare in Grecia".

Estradato in Italia, El Hallal restò in carcere fino al 6 maggio del 2001 quando, nonostante il parere contrario del pubblico ministero, il tribunale di Siracusa ritenne che fossero venute meno "le esigenze di custodia cautelare". Tornato in libertà, fu immediatamente trasferito in un centro d'accoglienza come "clandestino" ("Ma che clandestino? protesta l'avvocato Comi era stata l'Italia a chiedere l'estradizione") e quindi espulso in Francia. Al solito indirizzo che, per non sbagliare, comunicò anche alla direzione del carcere. Una settimana dopo, il 13 giugno del 2001, "Repubblica", individuò a filmò il relitto della barca maltese e i resti umani che ancora lo circondano a 19 miglia dalla costa siciliana.

In acque internazionali. La scoperta avrebbe determinato la fine della giurisdizione italiana se il procuratore capo di Siracusa, Roberto Campisi, non avesse modificato il capo d'imputazione: da omicidio colposo a omicidio volontario. Solo davanti a un reato così grave la legge consente di mantenere la giurisdizione anche in assenza del fondamentale presupposto della territorialità. L'udienza per il rinvio a giudizio si terrà il prossimo 27 maggio.
"Ho detto subito protesta il "latitante" - dove andare a cercare il relitto. Sapevo che era in acque internazionali. Non mi hanno creduto. Non vogliono, non hanno mai voluto la verità".

Ma qual è questa verità che fa tanta paura? "La verità dice El Hallal mentre sorseggia un caffè a un tavolino del bar Suffren è che il traffico dei clandestini viene fatto alla luce del sole. Sempre. Anche quella volta. Era la fine di novembre del 1996. C'era una nave da due mesi sotto sequestro nel porto di Tartlus, in Siria. Gli armatori non riuscivano a mettersi d'accordo con le autorità siriane sull'entità della solita tangente. Andai a Tartlus. Fu una cosa fatta sotto assoluta copertura. Io, falangista cristiano libanese, sono nella lista nera della Siria. Non posso entrare. Quella volta entrai, scortato da agenti del partito Baath. Dissequestrai la "Yiohan". Partii con un equipaggio di nove uomini. Sono gli stessi che la magistratura italiana ha accusato assieme a me del disastro. Ma la procura di Siracusa ha commesso un errore. Due di quei nove non erano sulla "Yiohan" al momento del naufragio. Lasciarono la nave nella prima tappa del viaggio, quando approdammo nel porto di Larnaka a Cipro. Tutti possono facilmente verificare quello che dico: i due uomini che scesero si chiamavano Georgios Sabbagh e Maen Tarraf. Imbarcammo come passeggeri sei migranti indiani che ci furono consegnati dalla polizia di Cipro. Uscendo dal porto, come si fa sempre, consegnai e firmai la lista di quelli che erano a bordo. In tutto quattordici: io, i sette membri rimasti e i sei indiani. Però dopo il naufragio, quando hanno ricevuto la richiesta dei nomi dell'equipaggio della "Yiohan", le autorità di Cipro hanno fornito la vecchia lista. Perché? Semplicemente perché la nuova lista avrebbe confermato che sei clandestini indiani erano stati imbarcati con la loro protezione".

Anche dopo il naufragio ci fu un intervento di copertura. "Con la Yiohan continua El Hallal feci rotta verso la Turchia. Prima di passare i Dardanelli fummo avvicinati da una nave che ci portò le carte col nuovo nome della nave, "Leobard", timbrate dal consolato di Honduras ad Atene. Cancellammo il nome "Yiohan" ed entrammo nel porto di Istanbul". Le autorità consolari honduregne erano dunque coinvolte? Ride Youssef. "Guardate anche a casa vostra... Sono tutti coinvolti. Ho preso centinaia di quelli che chiamate "clandestini" in tutti gli Stati che s'affacciano sul Mediterraneo e sul Mar Nero, esclusa solo la Libia. Gli armatori guadagnano, certo, ma non quanto si pensa. I veri guadagni sono di chi copre il traffico. Credo ancora nella giustizia. Io ho fatto un lavoro. Non voglio pagare per tutti. Voglio rivedere i miei figli".

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