Da Corriere della Sera del 31/03/2003
Un primo bilancio
di Sergio Romano
Fare il bilancio di una guerra cominciata da dodici giorni è probabilmente un esercizio accademico. Ma è giustificato, in questo caso, dalle parole con cui una parte dell’amministrazione americana aveva annunciato il conflitto e ne aveva anticipato le caratteristiche. Se la guerra era destinata a essere breve, un bilancio, dopo quanto è accaduto in questi giorni, diventa possibile e legittimo. Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa, era convinto di battere gli iracheni con circa 250 mila uomini, vale a dire con la metà degli effettivi impiegati dodici anni fa per la prima Guerra del Golfo. Credeva apparentemente che alcune formazioni corazzate avrebbero scovato il nemico e lo avrebbero costretto a scendere in campo. I satelliti, i missili e le bombe intelligenti avrebbero fatto il resto. Questi piani si sono scontrati con alcune difficoltà: due tempeste di sabbia e soprattutto il voto con cui il Parlamento turco non ha permesso agli americani di attaccare da nord. Ma era davvero necessario dare il via a una guerra preventiva (quindi non provocata da un attacco avversario) quando ancora mancavano alcune delle condizioni previste per un risultato rapido e favorevole?
Gli americani ci avevano detto che le loro truppe sarebbero state accolte con sentimenti di sollievo e liberazione. Ma il prolungato assedio di Bassora, gli scontri intorno ad altre città del sud e le operazioni di commando dei feddayn sembrano dimostrare che il regime è molto più radicato di quanto gli Stati Uniti non sostenessero.
Secondo i maggiori portavoce dell’amministrazione americana, Saddam avrebbe potuto incendiare i pozzi e ricorrere ad armi biologiche o chimiche. Non è ancora accaduto e non risulta, per di più, che le truppe della coalizione abbiano già scovato i depositi che gli ispettori dell’Onu hanno cercato inutilmente e Washington considera la maggiore giustificazione del conflitto.
Gli americani ci avevano detto che le loro armi avrebbero permesso una guerra chirurgica e che la popolazione civile sarebbe stata risparmiata. Sono certo che hanno fatto del loro meglio per rispettare l’impegno. Ma i bombardamenti di Bagdad e di Bassora preannunciano un conflitto non troppo diverso da quelli di cui siamo stati testimoni, dalla Bosnia al Kosovo, negli anni Novanta.
Ecco alcuni temi di cui certamente si discute in queste ore a Washington e a Londra. Non sappiamo ancora quali conclusioni verranno tratte da questo bilancio. Ma possiamo osservare le prime conseguenze politiche della guerra. Bush continua ad annunciare la vittoria, ma ammette la possibilità di un conflitto lungo e solo di recente, dopo essere apparso a lungo estraneo alla condotta delle operazioni militari, sembra seguire attivamente il conflitto. Il vice presidente Cheney (ex segretario alla Difesa e certamente esperto di problemi militari) si è chiuso nel silenzio. Rumsfeld è bersaglio di critiche e brontolii che sono il contrappasso della sicurezza e della arroganza con cui aveva imposto la sua linea. E la stella di Colin Powell, da sempre favorevole a una linea che i falchi consideravano troppo soffice, ha ricominciato a brillare. Mentre in Iraq si spara, a Washington si cominciano a intravedere i coltelli e i veleni della politica.
Gli americani ci avevano detto che le loro truppe sarebbero state accolte con sentimenti di sollievo e liberazione. Ma il prolungato assedio di Bassora, gli scontri intorno ad altre città del sud e le operazioni di commando dei feddayn sembrano dimostrare che il regime è molto più radicato di quanto gli Stati Uniti non sostenessero.
Secondo i maggiori portavoce dell’amministrazione americana, Saddam avrebbe potuto incendiare i pozzi e ricorrere ad armi biologiche o chimiche. Non è ancora accaduto e non risulta, per di più, che le truppe della coalizione abbiano già scovato i depositi che gli ispettori dell’Onu hanno cercato inutilmente e Washington considera la maggiore giustificazione del conflitto.
Gli americani ci avevano detto che le loro armi avrebbero permesso una guerra chirurgica e che la popolazione civile sarebbe stata risparmiata. Sono certo che hanno fatto del loro meglio per rispettare l’impegno. Ma i bombardamenti di Bagdad e di Bassora preannunciano un conflitto non troppo diverso da quelli di cui siamo stati testimoni, dalla Bosnia al Kosovo, negli anni Novanta.
Ecco alcuni temi di cui certamente si discute in queste ore a Washington e a Londra. Non sappiamo ancora quali conclusioni verranno tratte da questo bilancio. Ma possiamo osservare le prime conseguenze politiche della guerra. Bush continua ad annunciare la vittoria, ma ammette la possibilità di un conflitto lungo e solo di recente, dopo essere apparso a lungo estraneo alla condotta delle operazioni militari, sembra seguire attivamente il conflitto. Il vice presidente Cheney (ex segretario alla Difesa e certamente esperto di problemi militari) si è chiuso nel silenzio. Rumsfeld è bersaglio di critiche e brontolii che sono il contrappasso della sicurezza e della arroganza con cui aveva imposto la sua linea. E la stella di Colin Powell, da sempre favorevole a una linea che i falchi consideravano troppo soffice, ha ricominciato a brillare. Mentre in Iraq si spara, a Washington si cominciano a intravedere i coltelli e i veleni della politica.
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