Da Il Manifesto del 08/04/2003

Il Tigri visto dalla Senna/3 - Intervista all'ex primo ministro Michel Rocard

Il dilemma Usa: essere legge o farla

«E' da un secolo che il popolo americano e la sua classe politica non riescono a fare la scelta di base: mettiamo la nostra enorme forza al servizio dei nostri interessi o al servizio di regole mondiali?» Michel Rocard, ex enfant terrible della sinistra francese che con Washington ha trattato a tu per tu, risponde che il dibattito è aperto. «E ne vedremo delle belle»

di Marco D'Eramo

PARIGI. Dopo più di 20 anni rivedo Michel Rocard nel suo ufficio attuale vicino all'Assemblée Nationale: l'avevo incontrato spesso negli anni '70, quando era un quarantenne d'assalto del «nuovo» Partito socialista di François Mitterrand. Ex fondatore e segretario del Psu (l'equivalente dell'italiano Psiup, per chi ricorda queste minuzie), ex allievo della prestigiosa scuola d'amministrazione (l'Ena), Rocard rappresentava l'ala non marxista, tecnocratica della nuova sinistra, radicata nel protestantesimo dell'est della Francia. Dopo la vittoria mitterrandiana nel 1981, Rocard occupò vari posti ministeriali fino a diventare uno degli uomini più potenti di Francia quando, nel 1988 Mitterrand lo nominò primo ministro. Dopo meno di tre anni fu la rottura, e l'astio del vecchio patriarca fu implacabile. Tra il 1993 e il 1994 Rocard fu sì segretario del Partito socialista, ma poi fu cancellato dalla scena politica francese. Ora è presidente della commissione cultura del Parlamento europeo e membro della delegazione di questo parlamento presso gli Stati uniti. A 72 anni, questo ex enfant terrible della sinistra francese è meno magro, tagliente e dissacrante di come lo ricordavo. La sua lucidità è più posata, come di chi conosce il valore della prudenza contro le trappole del potere. Ma proprio per questo, le sue parole hanno il peso di chi con la potenza americana ha trattato a tu per tu.

La guerra in Iraq volge al termine e riemergono i contrasti sul dopoguerra. Non le sembra che Parigi sottovaluti l'ira americana contro la Francia? I segni d'ostilità, il boicottaggio delle merci francesi, sono presi sotto gamba come bizzarrerie dei «bambinoni» americani. Non crede che questa sottovalutazione possa avere conseguenze disastrose?
«È vero, i francesi non se ne rendono conto. Ma è anche vero che da due secoli le relazioni tra Francia e Stati uniti sono fatte di calda amicizia, di rotture e di riconciliazioni: non è nuovo. E poi la crisi non coinvolge tutta l'America: quasi tutto l'ambiente universitario e intellettuale disapprova Bush e ci testimonia, con tanti messaggi, la soddisfazione che la Francia tenga duro. Ed è vero per una gran fetta del partito democratico, deputati e sindaci. Anche l'opinione pubblica di base dissente da questi eccessi antifrancesi. Ed emerge una collera di questi ambienti americani contro il carattere monolitico, quasi totalitario della stampa e della tv Usa che appoggiano il governo Bush e trattano la Francia in modo insultante ai limiti della legge sulla libertà di stampa. Ma è vero, la situazione è grave. La violenza del disaccordo è probabilmente superiore a quella del 1956 a proposito del canale di Suez: fu la prima occasione in cui Parigi pose un veto al consiglio di sicurezza dell'Onu contro una mozione americana di condanna della Francia: ci vollero parecchi anni per venirne a capo. Quanto a me, trovo che la posizione di Jacque Chirac è giusta, ma l'ha manifestata con troppa aggressività, senza abbastanza precauzioni.»

Ma gli americani faranno ritorsioni.
«E' per questo che è grave: hanno già cominciato. Hanno già annullato due progetti spaziali di cooperazione franco-americana. E il peggio deve ancora venire.»

Ma perché l'ostilità Usa è focalizzata sulla Francia e non sulla Germania che pure ha operato la rottura più decisiva, mettendo fine all'ordine della seconda guerra mondiale?
«A lungo termine il distacco tedesco è più grave della rottura con la Francia: in Germania è successo un terremoto politico, persino sociologico. Ma a breve, la Germania non ha diritto di veto nel consiglio di sicurezza Onu. Quindi la Francia era più importante simbolicamente. E siccome l'economia francese pesa meno della tedesca, tampinare la Francia e minacciarle ritorsioni è più facile. È anche più divertente perché segue una lunga tradizione: durante tutta la guerra fredda la Francia è sempre stata trattata da ultima della classe Nato.»

C'è chi ritiene che la rottura tra Usa e «vecchia Europa» sia un fenomeno transitorio. Altri pensano che c'è una strutturale divaricazione nel sistema dei valori e del modello sociale: pena di morte, servizi pubblici, stato sociale, multilateralismo...
«In Europa abbiamo una forte divisione dei governi, ma una formidabile omogeneità delle opinioni pubbliche che nei sondaggi disapprovano a stragrande maggioranza questa guerra, e i sondaggi sono ancor più massicci dove il cui governo appoggia la guerra. E in Spagna e Gran Bretagna il distacco è reso più grave dal calendario elettorale: per una volta la politica estera avrà un peso elettorale. Guardi ai socialdemocratici spagnoli che pensavano di essere confinati all'opposizione per vent'anni e che ora sono tornati in gioco. Ma il vero problema non è in Europa, è all'interno degli Stati uniti: nessuno sa cosa diventerà questo grande paese. È quasi un secolo che il popolo americano e la sua classe politica non riescono a fare la scelta da cui discende tutto ciò, e cioè: «Noi abbiamo una forza enorme (che tra parentesi dobbiamo alla stupidità degli europei che si sono distrutti due volte di seguito nelle guerre mondiali nel `900), siamo pervenuti alla guida del mondo senza averlo davvero voluto, ma questa forza enorme la mettiamo al servizio solo dei nostri interessi, visto che ci siamo approfittiamone - e c'è una metà degli Stati uniti che la pensa così -, o la mettiamo al servizio dell'instaurazione di regole del gioco mondiale, che saranno naturalmente a tinta americana, poiché siamo i più forti e siamo noi a imporle, ma che una volta sancite dovranno essere rispettate anche da noi». Questo era già il contrasto tra il presidente Woodrow Wilson, ispiratore della Società delle Nazioni (Sdn), e il corpo legislativo americano che non ratificò il trattato di Versailles e ruppe la Sdn: siamo sempre là. Di solito i presidenti democratici hanno contribuito a un sistema mondiale regolato da norme e gestito da istituzioni internazionali. Persino Bush padre si è fermato là dove finiva il mandato delle Nazioni unite che era di liberare il Kuwait, non di cambiare il regime a Baghdad. È uno scandalo che venga accusato di «non aver finito» il lavoro: andrebbe ammirato. Ma altri americani, seguono la scuola oggi al potere a Washington, e considerano il resto del mondo una banda di barbari che crea caos cui solo il denaro dei contribuenti americani e la vita dei boys americani può mettere ordine. E a tutto ciò aggiungono ora una dimensione religiosa, fondamentalista. Non stiamo messi bene quando all'integralismo di Osama bin Laden si oppone l'integralismo cristiano americano. Non penso però che il dibattito tra queste due anime americane si sia concluso. Ne vedremo di interessanti appena la guerra in Iraq sarà terminata, perché andranno affrontate subito due situazioni. La prima è economica: l'Iraq è sotto embargo internazionale, e quindi bisogna cambiare la legge internazionale, cioè annullare le risoluzioni Onu, mettere fine a tutti gli embargo, al programma oil for food. Che piaccia o no, l'Onu dovrà perciò deliberare di nuovo, e probabilmente a richiesta americana: perché anche se loro vorranno ignorare le leggi internazionali, gli altri paesi continueranno ad applicarle. E più gli americani vorranno ignorare l'Onu, più saranno soli a pagare per la ricostruzione. Infine, qualunque sarà il regime in Iraq, un protettorato americano o una giunta locale sostenuta dagli Usa, avrà comunque bisogno di una sicurezza internazionale di garanzia rispetto al popolo kurdo, alla Turchia, all'Iran, alla Siria, all'Arabia saudita.»

In Inghilterra pensano che questa in Iraq sarà solo la prima di una serie di guerre. Ritengono assai probabile che dopo l'Iraq toccherà all'Iran.
«È inconcepibile che l'Iran sia ancora nella lista degli esportatori di terrorismo ben dodici anni dopo che ha fatto la sua mutazione. Se il mondo intero è pronto ad ascoltare il linguaggio brutale americano per mettere ordine, l'unico pericolo serio è la Corea del nord. Ma il fatto che alla guida degli Stati uniti c'è un'équipe meno accessibile di altre alla ragione, non li rende per questo del tutto stupidi. L'amministrazione Bush sa che ha iniziato questa guerra senza aver davvero finito la precedente: il mullah Omar e Osama bin Laden latitano ancora. E quando avranno chiuso con l'Iraq, in una situazione più pericolosa di quanto prevedessero - di rilancio di un entusiasmo terrorista, per così dire -, dovranno ricominciare a occuparsi dell'Afghanistan. E anche il modo in cui si è svolta questa guerra rende più urgente di quanto pensassero occuparsi del conflitto israelo-palestinese. Se a tutto ciò si aggiunge che non sfuggiranno comunque, per quanto ho detto prima, a un bisogno di legalità internazionale, diventerà fortissima la spinta a cercare una comunicabilità delle loro intenzioni un po' più forte: Saddam Hussein è uno dei peggiori criminali dell'ultimo quarto di secolo e tutti nel mondo erano disposti a essere comprensivi di fronte a ogni tentativo di sbarazzarsene. Essere riusciti a mettersi contro tutto il pianeta è moderatamente astuto. E non dimentichi i problemi economici mondiali, in particolare la mancanza di fiducia degli investitori (il consumo ha tenuto meglio), e il finanziamento del deficit commerciale americano, che finora è stato coperto dai risparmiatori di tutto il resto del mondo.»

Tutti sono in una sorta di impasse: l'Europa è spaccata, gli Usa si sono inimicati mezzo mondo, la Francia e la Germania da sole sono troppo deboli, Blair è indebolito. C'è un modo per uscira da questo vicolo cieco?
«Se ne esce se non si cerca di regolare i conti, ma se si riallaccia un dialogo per risolvere il problema dell'Iraq e del Medio oriente in un quadro di legalità internazionale e, possibilmente, con l'accordo del maggior numero possibile di paesi musulmani. Se francesi e tedeschi si mettono a rincarare «Ve l'avevamo detto che non sareste stati accolti come liberatori»; se gli Americani ne approfittano per pretendere che col voto di una nuova risoluzione gli si dia ragione di aver attaccato l'Iraq al di fuori di ogni legalità, tutto va all'aria. Se invece gli europei si moderano e gli Usa non esigono sconfessioni, c'è un tale bisogno di tornare al multilateralismo in un lavoro internazionale, che una soluzione diventa possibile. Si dimentica che il rigetto dell'Onu, cui sono giunti gli americani, ha immense conseguenze collaterali, riguarda i negoziati sul clima, sui paradisi fiscali, l'Organizzazione mondiale del commercio, le trattative sulle armi biologiche, la Corte penale internazionale. Tutto è fermo e tutti, persino gli Usa, hanno interesse a che riparta, solo che quest'amministrazione per ora non ne è cosciente. Ma se riusciamo a ristabilire il dialogo, le conseguenze della rottura saranno meno gravi di quelle che lei prospettava.»

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