Da Il Mattino del 16/04/2003

Ora i marines si sentono sotto tiro

A Baghdad slogan anti-Bush, irruzione dei soldati nell’hotel Palestine

di Vittorio Dell'Uva

In teoria, il «Palestine», sarebbe un albergo, con quattrocento stanze e la vista sulle acque verdi del Tigri. Non proprio confortevole per i suoi connotati da aspirante topaia che, ai tanti «soldati John» confinati nella hall, fanno storcere il naso. È diventato la culla sbilenca del «nuovo potere». Con il quale, per i giornalisti che vi sono accampati, diventa sempre più faticoso convivere. Non che i marines siano tutti sull’orlo di una crisi di guerra, ma alcuni vi sono pericolosamente vicini. «Il Palestine, come l’Iraq, è cosa nostra», deve essere l’idea che frulla nella testa di molti soldati. Lo si vede nei fatti e senza che all’orizzonte appaiano alcuni pentiti per la cannonata che il giorno prima della «formale» caduta di Saddam, ha ucciso due cameramen che facevano il loro lavoro alle finestre del quattordicesimo e del sedicesimo piano.
Dall’albergo diventa sempre più difficile entrare ed uscire, seguendo percorsi obbligati tra carri armati «Abrahms», blindati e filo spinato. L’intera area su cui ricade anche lo «Sheraton» sembra una roccaforte lungo la linea di un ipotetico fronte.
È quello che accade al suo interno che induce a riflettere. Gli «american boys» non conoscono proprio le mezze misure. Dopo l'inefficienza, li guida il sospetto. Nei primi giorni il «Palestine», abbandonato in fretta dai guardiani fedeli al regime, è diventato un autentico porto di mare. La parola «press» ne apriva le porte come il più efficiente dei pass-partout. I vecchi informatori facevano un salto per salutare gli amici e farsi passare per oppositori appena usciti dalle cantine. Ipotetici autisti, interpreti ed affaristi di basso profilo, si lasciavano ingoiare dagli ascensori. Non un solo bagaglio veniva osservato con qualche attenzione. Giornalisti occupavano le stanze lasciate liberte dai colleghi senza curarsi troppo delle formalità della registrazione.
Agli sportelli dell'ufficio «Affari civili», insediato dall'esercito americano in un angolo, era indirizzato chiunque chiedesse di poter tornare al lavoro. Nessuno pensava di dover sbarrare il passo agli ambulanti che avanzavano con il loro carrelli.
La svolta, arrivata improvvisa, deve essere stata ispirata dai primi rapporti, accurati, dei traduttori messi con le orecchie al vento ad ascoltare.
Gli slogan, che ogni mattina, una piccola folla scandisce, si sono fatti sempre più ostili, passando dalla richiesta di ripristino dei servizi essenziali al molto più sbrigativo «Go home» riservato agli «imperialisti» di Bush «che ha distrutto un Paese per succhiarne il petrolio».
Né è mancato qualche appello alla nascita di «una repubblica islamica» che Washington proprio non si aspettava. Non che certe frasi facciano in particolare paura, ma è un dissenso che troppo spesso finisce, oltreoceano, in diretta tv. Come la sfilata di dignitari religiosi sciiti in mantella e turbante che ieri hanno ostentatamente scelto il bar dell'hotel per bere una tazza di tè. Anticipando di un'ora l'arrivo di Hascheem Mohamed Al Zubaidy, un fuoriuscito che per conto di Ahmed Chalabi, l'uomo degli americani, è venuto a proporsi come nuovo governatore di Baghdad.
I marines, che associano sbigativamente la protesta al pericolo, hanno trovato che fosse il caso, armi in pugno, di darsi da fare. Cominciando, in base alla sindrome dei cecchini, dai piani più alti. E all'alba, come prevede il copione. Linda Coth, producer della Cnn, si è ritrovata, al risveglio un po' brusco, dieci fucili puntati contro il suo letto.
Altrettanto è successo a Giovanna Botteri del Tg3 e a una decina di altri colleghi. All'ordine di stendersi per terra non è stato possibile opporsi, quale che fosse il richiamo ai diritti che derivano dalla democrazia. Tre cittadini iracheni, finiti poi chissà dove, sono stati trattati con maggiore durezza. Dietro le grate di più balconcini ormai si intravvedono binocoli e mitra puntati. L'insicurezza deve serpeggiare tra i nuovi padroni dell'Iraq.
Il comando americano spera che a dare una mano siano gli iracheni di «buona volontà» che - ritengono - devono pur essere da qualche parte. A loro si rivolgono con buoni consigli e una richiesta esplicita di delazione. Volantini diffusi in quattrocentomila copie nella capitale invitano a a non sbarrare il passo alle colonne militari e a non uscire di casa dopo l'ultima preghiera per non impedire con la loro presenza la caccia ai «delinquenti e ai resti del regime».
Ma quello che conta davvero è l'appello a fornire informazioni, anche vaghe, sulle iniziative della resistenza di cui, evidentemente, si temono colpi di coda.

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