Da Il Sole 24 Ore del 14/05/2003

«Monito a tener alta la guardia»

di Ugo Tramballi

GERUSALEMME - Il giorno del compleanno del Profeta Maometto, prima dell'alba del 13 maggio, i terroristi di al-Qaida celebrano la festa nel loro solito modo immorale: un assalto a colpi di mitra, quattro veicoli carichi di tritolo contro le case degli occidentali che vivono a Riad, 91 morti per gli americani, 29 secondo i sauditi, e oltre 200 feriti molti dei quali gravi. Il mostro è tornato e nessuno s'illudeva che prima o poi non lo avrebbe fatto. Tutto questo, dice freddamente George W. Bush, «ci ricorda che la guerra al terrorismo continua». Sono almeno nove i terroristi e quattro i mezzi, tra camion e furgoni imbottiti di tritolo, che nella notte si avvicinano alla zona di Riad dove vivono gli stranieri, in gran parte occidentali. Il gruppo si divide: uno prende la strada del complesso di case e appartamenti di Gharnata, un altro va verso Ishbiliya, il terzo raggiunge Cordoba e l'ultimo la sede di una joint venture saudita-americana, la Saudi Maintenance Company. L'operazione è complessa, dimostra una preoccupante preparazione logistica. In uno degli obiettivi un commando irrompe sparando con armi automatiche: è qui che cadono probabilmente le prime guardie della polizia saudita. Ventiquattr'ore più tardi sarà ancora difficile ricostruire i dettagli dell'attacco suicida. Negli altri centri dove dormono centinaia di lavoratori stranieri, soprattutto occidentali, soprattutto impegnati nella cooperazione alla difesa saudita, molti con le famiglie, i terroristi sfondano i cancelli con i loro mezzi imbottiti di tritolo. Le esplosioni sono quattro, una dopo l'altra, terribili. La devastazione è indescrivibile. L'ambasciatore americano a Riad spiega che nel centro dove i terroristi sono riusciti a entrare più facilmente, sono state distrutte almeno 12 case e 16 appartamenti. Il primo bilancio è di quattro morti. Poi sale: 26 è quello ufficiale saudita; tra 40 e 50 morti, dice un medico danese accorso sul posto; più di 90, concludono gli americani. Nel caos, molte ore più tardi sarà ancora difficile determinare il numero delle vittime saudite, americane, svizzere, libanesi, giordane, filippine. Tra i quasi 200 feriti ci sono tre italiani, uno dei quali è grave. «L'attentato ha il marchio di al-Qaida», constatava Colin Powell già prima della rivendicazione, appena arrivato in Arabia Saudita alla fine di una missione mediorientale che doveva essere e continuerà a essere di pace. Poco più tardi giunge la rivendicazione alla quale tutti credono: i terroristi di al-Qaida usano la posta elettronica del giornale locale «al-Majallah». Bush che è anche il comandante in capo della lunga guerra al terrorismo, aggiunge subito questo attentato nell'elenco dei fatti di sangue che l'America non intende dimenticare: «Ogni volta che qualcuno attacca il nostro territorio o i nostri cittadini, gli daremo la caccia e lo porteremo di fronte alla giustizia». «Chiedete ai talebani», aggiunge per non essere frainteso. E se qualcuno pensa che conquistando l'Irak, l'America si sia distratta dal conflitto nel quale al-Qaida l'ha trascinata l'11 settembre di due anni fa, Bush ricorda che quella è stata solo una “battaglia” del grande confronto col male. I sauditi avevano quasi messo le mani sul commando dell'altra notte. Poco più di una settimana fa i servizi segreti avevano individuato 19 uomini, 17 dei quali sauditi, e scoperto i loro covi pieni di armi ed esplosivi. Ma quando vi avevano fatto irruzione, i terroristi erano già fuggiti. «È gente che sa solo odiare e uccidere», dice il ministro degli Esteri Saud al-Faisal. Colin Powell riconosce che le autorità locali «hanno fatto il possibile per difendere gli occidentali sul loro territorio». Sul piano della sicurezza è da molto tempo che i sauditi collaborano attivamente. Il problema, come spiega un giornalista locale, è "ideologico". Le autorità non hanno ancora chiuso quelle moschee dalle quali si continua a professare l'odio per gli occidentali. Ma questo fa parte di una complessa e difficile riforma del regno che il principe reggente Abdullah ha avviato lo scorso 3 maggio, quando silenziosamente ha cominciato a sostituire alcuni vecchi ministri. Un team dell'Fbi è già partito da Washington per coordinare le indagini dell'attentato. Ma ancora una volta la mobilitazione americana non sarà solo poliziesca: la decisione di chiudere la base aerea Principe Sultan, spostandola in Qatar, non significa che gli Usa abbandoneranno l'Araba Saudita. «Gli Stati Uniti - promette Colin Powell - non si lasceranno convincere ad abbandonare gli interessi della pace, ovunque nel mondo».

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